mercoledì 20 marzo 2013
«I figli ​devono avere informazioni sulle proprie origini»: la Corte europea dei diritti umani: l’Italia deve cambiare la legge 184/83  oggi "sbilanciata" a favore della madre che non vuole riconoscere il bimbo. (Lorenzo Galliani)
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A un figlio abbandonato o non riconosciuto dai genitori non può essere negato l’accesso a informazioni sulle proprie origini biologiche. La Corte europea dei diritti umani respinge il ricorso del governo italiano e conferma la condanna alla legge 184 del 1983. Tra i due diritti che si scontrano – quello della madre di partorire in anonimato e quello del figlio a conoscere la sua provenienza – secondo i giudici di Strasburgo, l’Italia tutela solo il primo.Tutto nasce dalla protesta di una donna di 69 anni che a 10 scoprì di essere stata adottata, e inutilmente tentò di conoscere, se non i nomi dei genitori, si legge nella precedente sentenza della Corte (settembre 2012), almeno «elementi non identificativi della sua famiglia naturale». A una iniziale richiesta di 250mila euro per «il danno morale», i giudici scesero a 15mila, spese comprese.Una decisione che, in ogni caso, aveva deluso molte associazioni da sempre in prima linea a tutela della famiglia: eliminando i diritti della madre che non vuole riconoscere il figlio, questa la tesi, si rischia di favorire aborti, abbandoni selvaggi o altri gesti estremi. La stessa preoccupazione del governo italiano, che ha chiesto alla Corte europea per i diritti umani (istituzione del Consiglio d’Europa, non ha nulla a che vedere con l’Ue) di rinviare la controversia davanti alla Grande Camera. Ricevendo, ancora una volta, una porta in faccia: il Parlamento – è il messaggio che arriva da Strasburgo – dovrà mettere mano alla legge 184.La strada è comunque ancora lunga, spiega Alberto Gambino, ordinario di diritto civile all’Università Europea di Roma: «Si parla di sbilanciamento tra due diritti, ma bisogna intendersi. Lo sbilanciamento ci può essere se siamo davanti a due beni dello stesso valore. In questo caso, invece, il diritto all’anonimato della madre partoriente si lega alla necessità di preservare il figlio che nasce. E ha quindi un peso maggiore rispetto al desiderio del figlio di conoscere l’identità della madre». L’Italia, prosegue Gambino, «ha comunque ampi margini di discrezionalità», e non può, per esempio, dimenticarsi della sentenza della Corte Costituzionale (425/2005) secondo cui qualunque donna partoriente mira a «proteggere tanto lei quanto il nascituro».Un percorso da verificare potrebbe esserci: «Consentire al figlio abbandonato di avere accesso a informazioni sulla sua origine biologica – spiega Gambino – ma tutelando comunque l’anonimato della madre». Il figlio potrebbe così essere informato, in concreto, su alcune caratteristiche dei genitori, proprio quegli «elementi non identificativi della sua famiglia naturale» che la stessa 69enne italiana non ha ancora potuto conoscere.Altre correzioni – ma anche qui siamo nel campo delle ipotesi – potrebbero portare a offrire informazioni sull’identità genetica quando ci possano essere «motivazioni legate a patologie» (in questa situazione il figlio sarebbe spinto anche dalla possibilità, risalendo ai propri genitori, di essere curato meglio). Oppure, senza andare ai casi limite, «si potrebbe seguire l’esempio francese – riprende il professore di diritto civile –. Di fronte a una richiesta del figlio, si potrebbe attivare una procedura per informare la madre e consentirle di ripensarci».Se invece dovesse cadere il diritto alla madre di portare avanti una gravidanza indesiderata e non riconoscere il bambino, il rischio sarebbe davvero quello di un’impennata di aborti e abbandoni. E di finire, nel tentativo di difendere diritti contrapposti, nel non riuscire a tutelare più nessuno.
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