giovedì 29 giugno 2017
Il tribunale di Venezia, con il via libera all'adozione tra persone dello stesso sesso, introduce anche una sorta di clausola educativa: va tutelato lo sviluppo psicofisico della bambina.
Adottata da due mamme gay. Il tribunale: frequenti anche persone eterosessuali
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È quasi una sorta di implicita riparazione per una scelta che, se appare in linea con l’interpretazione estensiva fornita dalla Cassazione della legge 184 sulle adozioni – il citatissimo articolo 44, comma 1, lettera D – continua a non risultare del tutto convincente. E quindi il giudice del Tribunale dei minorenni di Venezia, concedendo l’adozione della figlia di 5 anni alla partner della mamma, ha allo stesso tempo raccomandato di rispettare l’identità di genere della bambina «per permetterle uno sviluppo adeguato e avere l’opportunità di relazionarsi con persone a orientamento non omosessuale». Una clausola educativa più che giuridica, improntata alla saggezza del principio di precauzione e tesa a manifestare, almeno implicitamente, un dubbio personale su quello che, a tutti gli effetti, rimane un esperimento antropologico di cui nessuno può prevedere l’esito finale.

La vicenda, destinata ad aprire un nuovo capitolo nella già corposa serie di pronunciamenti a favore di genitori omosessuali da parte dei tribunali italiani, ha per protagoniste due donne, entrambe veneziane. La prima, 31 anni, è la madre biologica della piccola, partorita con il seme di un donatore anonimo – ma che biologicamente rimane sempre e comunque il padre – probabilmente all’estero, cinque anni fa. La seconda, 37 anni, è la compagna della donna. Vivono insieme da tempo e lo scorso anno, grazie alla legge Cirinnà, hanno deciso di sottoscrivere un’unione civile.

La norma però non prevede l’adozione del figlio del partner – com’è noto all’ultimo momento la stepchild adoption è stata stralciata dall’articolato – e quindi le due donne si rivolgono al Tribunale dei minorenni per veder riconosciuto quello che ritengono essere un loro diritto. «La mamma biologica della piccola – spiega l’avvocato Valentina Pizzol che insieme al collega Umberto Saracco ha seguito la causa – non ha una famiglia alle spalle e quindi temeva che, nel caso malaugurato di un decesso, la bambina avrebbe potuto essere tolta a quella che è di fatto una seconda "mamma" per essere affidata a un istituto».

Da qui il ricorso al tribunale coronato da una sentenza favorevole. Di fatto una decisione già scritta, com’è capitato in numerosi casi negli ultimi mesi, dopo che il 22 giugno dello scorso anno, la Cassazione ha deciso che l’interpretazione dell’articolo 44, comma 1, lettera D della legge 184 del 1983 può essere estesa anche ai genitori omosessuali. È evidente che 35 anni fa il legislatore, tra i vari casi delle cosiddette "adozioni speciali", non avesse affatto previsto questa eventualità ma la legge si adegua alla cultura dominante e, in alcuni casi, la anticipa.

Così i giudici della Suprema Corte avevano stabilito che la relazione affettiva con il minore deve prevalere rispetto ad altre valutazioni, visto che non si può ritenere che il rapporto tra persone dello stesso sesso sia potenzialmente dannosa e in contrasto con l’interesse del minore. Purtroppo non si può ritenere neppure il contrario. In ogni caso all’orientamento si sono adeguate in questi mesi varie sentenze. Della serie: non importa se non esiste una legge che prevede l’adozione per le coppie omosessuali, ne modifichiamo una a nostro piacimento.

Così è stato anche per la sentenza di ieri. Quasi una scelta obbligata, che però non ha evitato al giudice di far proprie le cautele già espresse dalla relazione dei Servizi sociali: rispettate il normale sviluppo psicofisico della bambina e il suo naturale orientamento, permettetele di frequentare anche famiglie con un papà e una mamma. «Un brutto scivolone», secondo l’avvocato Pizzol. Forse solo la prudenza di persone che, come chi opera nei Servizi sociali, sanno che la vita buona non si costruisce con le ideologie.

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