martedì 2 aprile 2013
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​All’ombra delle commissioni incaricate di offrire una sorta di programma economico-istituzionale ad un eventuale governo, zio e nipote continuano a lavorare sul nodo che può sbloccare il Paese: il nuovo capo dello Stato. Gianni ed Enrico Letta sono i due plenipotenziari di Pdl e Pd per trovare, in quindici giorni, una personalità che sia di garanzia sia per Berlusconi sia per i democratici. Un’impresa ai limiti dell’impossibile. I nomi verbalizzati nei giorni scorsi sono ancora lì: Giuliano Amato, Franco Marini, Anna Maria Cancellieri, vertici ed ex vertici della Corte costituzionale. E poi la rosa del Cav: lui stesso, il più anziano dei Letta, Antonio Martino, Giuliano Urbani, Lamberto Dini. Se si supera l’impasse, può accadere di tutto: la nascita di un governissimo (magari guidato da Enrico Letta), ma anche il via libera del Cavaliere a un monocolore Pd targato Bersani. I fattori sono tanti. Il braccio di ferro interno al Pd tra "ala dura" e "colombe" forse è il più importante. Se prevalesse la linea che in queste ore accomuna Enrico Letta e Matteo Renzi, allora le larghe intese potrebbero davvero vedere la luce. Perciò Berlusconi alza i toni e fa arrivare a largo del Nazareno un messaggio nitido: «Se vi eleggete da soli il nuovo presidente della Repubblica renderò impossibile la formazione di qualsiasi esecutivo. E ho già pronta una campagna elettorale d’assalto, con i 6x3 di tutte le cariche istituzionali che avete occupato. E una sola parola: golpe». Con i suoi il Cav arriva a scherzarci su: «Pensate se si alleano con i grillini e portano al Colle Ilda Boccassini...». È un paradosso, ma in via dell’Umiltà quasi considerano un «regalo» la «scellerata ipotesi» che il Pd proceda da solo sul più importante incarico istituzionale. «Già siamo in vantaggio nei sondaggi, sarebbe facile spiegare al Paese come il loro unico interesse sia occupare poltrone...». In realtà, nella strategia degli azzurri poco si tiene conto della variabile Lega, molto meno entusiasta di ripartire lancia in resta in una campagna elettorale da tutti contro tutti, dato il duro scontro interno nato dopo il deludente risultato delle nazionali. In questo contesto Gianni ed Enrico continuano a provarci, tra lo scetticismo dei più. I tempi stringono. Risolto il nodo-Friuli (pare proprio che a rappresentare la regione andranno i delegati del vecchio Consiglio regionale, e non del nuovo che si eleggerà con il voto del 21 aprile), non c’è più nessun motivo per ritardare la convocazione della seduta a Camere riunite con i 58 delegati regionali. Potenzialmente, dal 17 aprile l’Aula potrà già iniziare a lavorare. La Carta prevede che nelle prime tre votazioni servono i due terzi dei parlamentari. Alla coalizione Pd-Sel mancano una manciata di voti, quattro o cinque. La tentazione di forzare la mano è forte, e i falchi lavorano a 360 gradi sia con M5S sia con i montiani. E Romano Prodi, come catalizzatore, sembra funzionare. Se nei primi tre giri non accadrà nulla, la crisi istituzionale, sinora incappucciata da Napolitano, esploderà in tutta la sua forza. Il Cavaliere considera «una sfida aperta, un pugno nell’occhio» la salita del suo storico rivale al Quirinale, tra l’altro controparte anche in un nuovo filone giudiziario (quello sulla compravendita di voti che decretò la fine dell’esecutivo-Prodi nel 2008).
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