giovedì 13 febbraio 2014
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​Con il suo pubblico disimpegno, l’Onu sembra di primo acchito mettere in difficoltà la strategia che il governo intenderebbe adottare con l’India sul caso marò, nel tentativo di riportare la questione in un contesto internazionale. Per la precisione, appellandosi all’articolo 287 della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del mare del 1982, allegato 7, al fine di instaurare un arbitrato internazionale. L’unica speranza, questa, per poter accertare se il caso ricade sotto la giurisdizione italiana o indiana, e poter asserire davanti a una Corte super partes che i militari italiani hanno agito durante lo svolgimento delle loro funzioni secondo la legge italiana e nell’esecuzione degli obblighi cui sono legati dalle decisioni del Consiglio di sicurezza Onu contro la pirateria.Le parole di Ban Ki-moon, che invitano i due Paesi a vedersela fra di loro, secondo gli addetti ai lavori, sarebbero invece un invito alla diplomazia italiana a seguire passo passo le procedure internazionali, senza forzare subito la mano all’Onu, per riprendere nel modo corretto il bandolo della matassa del caso Latorre-Girone, che si è andata sempre più ingarbugliando da due anni in qua. La task force degli esperti italiani è al lavoro in vista dell’udienza del 18 febbraio presso la Corte suprema indiana e si prospettano tre scenari. La Corte potrebbe rilasciare i due marò riconoscendo il loro “status funzionale” al servizio della Repubblica italiana (ipotesi più improbabile), oppure processarli come richiede la pubblica accusa secondo il “Sua Act”, la legge anti-terrorismo (scelta che creerebbe un precedente gravissimo), infine processarli secondo il diritto penale indiano. Negli ultimi due casi Latorre e Girone comunque rischierebbero molti anni di galera. A questo punto il governo italiano potrebbe scegliere di riservarsi di adire alle vie legali e nel frattempo proporre una via negoziale davanti a un giudice indiano. E, nell’eventualità fallisse anche questa strada, attivare la comunità internazionale, appellandosi alla Convenzione Onu di cui sopra presso la Corte permanente di arbitrato dell’Aja. La stessa convenzione è stata adottata con successo dall’Olanda contro la Federazione russa per l’arresto degli attivisti di Greenpeace. Nel frattempo ci si muoverebbe presso il Tribunale internazionale per la Legge del Mare delle Nazioni Unite con sede ad Amburgo per permettere ai due marò di lasciare l’India per un Paese terzo. Questo rientra nell’allegato 7 che recita anche che “una qualsiasi delle parti di una controversia può sottoporre la controversia alla procedura di arbitrato”. Ma la controversia ora non c’è: il problema è che, rimandando indietro i marò in India dopo averli trattenuti in Italia (sprecando un’occasione negoziale unica), di fatto il nostro Paese ha accettato le decisioni indiane. Esiste, però, ancora una possibilità di riattivare almeno in parte la “internazionalizzazione” del caso, in quanto la minacciata applicazione della legge anti-terrorismo o la pena di morte “deludono” le aspettative di avere un giusto processo, che è la motivazione con cui l’Italia sta ponendo il caso marò alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Ma con quali effetti pratici sull’India non è dato di sapere.
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