giovedì 4 aprile 2019
La città dieci anni dopo quella notte fra il 5 e il 6 aprile 2009. Dopo i 309 morti, i 1.600 feriti, i quasi 80mila gli sfollati. Furono 57 i comuni colpiti
I 3.650 giorni dell'Aquila dopo il terremoto

«Il terremoto ce lo portiamo addosso come un tatuaggio», dice Monica Santoro, giornalista. Le Aquile sono in qualche modo tante, ma tutte una. Quella del centro storico, che di giorno vive fra polvere e rumore dei lavori e la notte scivola dentro il silenzio, fatto ancora di tante piccole zone rosse. Quella di periferia, assai più avanti nella ricostruzione. Quella delle decine e decine di gru che si scorgono fin dall'autostrada, dei troppi cartelli "Vendesi" e "Affittasi". Quella, di nuovo, nel centro storico, dove non c'è ombra di servizi pubblici. Quella delle new town, alcune abbandonate, altre nelle quali vivono ancora 10mila persone. Quella notte il terremoto le spezzò le ali e L'Aquila venne abbattuta, non uccisa. Tremilaseicentocinquanta giorni dopo la incontri rialzata.

Fu un sisma feroce quanto un milione di tonnellate di tritolo, alle 3 e 32 della notte fra il 5 e il 6 aprile 2009. Infine si contarono 309 morti (fra loro, 55 ragazzi venuti qui all'università), 1.600 feriti, quasi 80mila sfollati. Colpì 57 comuni, 42 nella provincia dell'Aquila, 7 in quella di Pescara, 8 nel teramano. Camminando i ricordi graffiano, ma fanno meno male. Mentre riaffiora via via ogni angolo com’era e non è più eppure non se n’è mai andato dagli occhi. Le macerie grondanti dolore e morte e poi rabbie. Le prime coperte da distribuire. Le case abbandonate in pochi attimi. Mentre ieri si fa oggi, perchè non sia anche domani. Custodendo la memoria, che «vuol dire proteggere i territori per proteggere le vite», spiega Antonietta Centofanti, che fa parte del comitato "Familiari vittime della Casa dello studente", dove perse un nipote.

Questi dieci anni in questi giorni si affollano dentro uno sull’altro. «Quella notte eravamo in casa, abito proprio in centro, eravamo quattro famiglie, uscimmo fuori in tre, una morì sotto le macerie. Ed è stato difficile, lo è ancora. Ha lasciato un segno che penso non passerà», sussurra Ciro Improta, associazione "Bibliobus", napoletano trapianto nel capoluogo abruzzese dal 1974.
Aveva quattordici anni Davide Massimo, aquilano, studente in Ingegneria: «Abbiamo vissuto una gioventù diversa da tutti gli altri, fatta di spazi mancati, di tempi mancati», dice.

Poi, c’è anche domani. Il futuro. «Non vogliamo più fare le vittime del terremoto – avvisa Giancarlo Gentilucci, di "Arti e spettacolo" –. Vogliamo che ciascuno si assuma la responsabilità di ciò che dovrà avvenire, partecipando tutti a quella che sarà una città nuova». Fa caldo di giorno e freddo la sera, come dieci anni fa. Secondo Massimo Prosperococco, del comitato aquilano "Scuole sicure", «dovrebbe andare di concerto con quella materiale, invece è mancata la ricostruzione sociale della città». Forse perché L’Aquila non si è spopolata, la sua gente soprattutto s’è sparpagliata fuori dal centro storico. Dove, prima o poi, tornerà.

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