Il bimbo ucciso dalla mamma a Muggia, la tragedia che ci riguarda tutti
L’ intera comunità sotto choc dopo l'omicidio del piccolo di 9 anni da parte della madre. Il dolore e la preghiera del vescovo Trevisi: «Piangiamo perché non abbiamo fatto abbastanza»

«Piangiamo per quanto non abbiamo fatto abbastanza». È l’invito del vescovo di Trieste, monsignor Enrico Trevisi, in presenza della più inspiegabile delle tragedie. Che ha choccato Muggia, ma non solo, la vicina Trieste, le comunità al di qua e al di là del confine. Soltanto da pochissimi giorni erano iniziati gli incontri liberi tra la mamma e il figlio di 9 anni. In precedenza, per il bambino era stata predisposta una forma protetta di incontri, alla presenza degli assistenti sociali. Completata questa modalità di percorso, si era deciso di consentire alla donna di stare assieme al figlio senza la presenza di altri adulti. Il piccolo avrebbe dovuto tornare dal padre, un triestino, del 1967, alle 21 di mercoledì sera. L’appuntamento, però, non è stato rispettato e a quel punto l’uomo ha tentato inutilmente di contattare telefonicamente la moglie da cui era prossima la separazione. Dopo un po’ ha allora allertato la Polizia. Gli agenti, intervenuti sul posto, hanno chiamato i vigili del fuoco, intorno alle 22, per entrare in casa. I vigili hanno tirato su un’autoscala, hanno aperto una finestra e hanno subito trovato il corpo del bimbo e la donna in stato di choc. Il piccolo, 9 anni, con tagli (mortali) alla gola, lei con altri sulle braccia.
Di origini ucraine, classe 1990, seguita da tempo al Centro di salute mentale, la donna è stata presa in cura dai sanitari e trasportata all’ospedale di Cattinara. Da lì, una volta dimessa, è stata trasferita, in arresto, al carcere di via Coroneo. Il sindaco Paolo Polidori ha proclamato il lutto cittadino per tutta la giornata, con un minuto di silenzio, peraltro in tutta la regione, a mezzogiorno, quando don Andrea Destradi, il parroco, ha fatto suonare le campane per invitare alla preghiera. «Li conoscevo ma nulla lasciava presagire un epilogo di questo tipo, perché una mamma che uccide un bambino di 9 anni è una cosa che non esiste – riflette don Andrea, che stava preparando il piccolo alla prima Comunione - ero consapevole che lei aveva bisogno di un aiuto. È venuta da me più volte in questi ultimi anni a chiedermi una mano per trovare un lavoro, ma di lavori ne aveva cambiati tanti perché non riusciva a mantenerne uno. Mi rendevo conto benissimo che non era quello il tipo di aiuto di cui lei aveva bisogno. Aveva bisogno di un aiuto più professionale, che trascende le mie possibilità. Le dicevo “fatti aiutare dai medici”, ma lei era convinta di non averne bisogno», spiega. Sul motivo che ha scatenato il gesto «non so cosa dire» ammette il sacerdote. «Non credo sia stata la separazione, era una cosa ormai vecchia. Da anni non li vedevo più insieme come famiglia. Sabato sera il padre era a Messa con il bambino, perché si preparava alla Prima Comunione, nella scuola slovena», aggiunge. «Non ero a conoscenza di nessuna situazione di criticità acuta che chiedesse un intervento immediato per non far saltare il coperchio». Anche il sindaco Polidori non si dà ragione di quanto è accaduto, anche perché - conferma – la situazione era seguita da tempo e puntualmente dai servizi sociali. Commosso il vescovo monsignor Enrico Trevisi. «La tragedia del piccolo Giovanni è anche la tragedia della sua mamma, del suo papà e di tutta la comunità. Nonostante l’attivazione dei servizi sociali, del tribunale, del Centro di Salute Mentale, della Caritas parrocchiale e della comunità cristiana di Muggia – si rammarica - non si è riusciti ad impedire che la ferocia della violenza si scagliasse contro il più innocente: un bambino di nove anni. Succede nelle guerre. Succede anche nei drammi familiari. Con tutte le gradazioni di disagio, di colpa, di malattia, di angosce ribollenti».
Lo smarrimento rischia di prendere il sopravvento. «Ci scopriamo tutti incapaci di proteggere i più piccoli che restano i più indifesi, vittime innocenti, incolpevoli, pure. In qualche modo ci riportano alla vittima innocente che è il Cristo Crocifisso – riflette monsignor Trevisi -. E ci rammentano che il male ancora è presente ed è assassino». E poi il coraggio di guardare avanti, riprendendo la strada. «Siamo chiamati a ritrovare uno spazio di silenzio, di riflessione sulla presenza del male e su come non lasciarci travolgere dalla tentazione semplicistica del trovare il capro espiatorio. Certo che dobbiamo impegnarci a fare in modo che non si ripetano più queste tragedie. Ma purtroppo, nel frattempo, dobbiamo anche accettare la nostra sconfitta, il fallimento della nostra pretesa organizzativa che vorrebbe eliminare il male e la morte innocente. Siamo chiamati a fare i conti che la nostra umanità così vulnerabile, la nostra cultura gracile, le nostre istituzioni sociali e sanitarie non possono debellare la costitutiva fragilità esibita da questo dolore innocente». Il vescovo insiste: «Abbiamo bisogno di guardare altrove per essere salvati dal mistero del Male e della morte. Come comunità cristiana siamo chiamati ad alzare lo sguardo al Cristo Crocifisso, Agnello innocente e immolato. E con Lui a ripartire con nuovo vigore; ad impegnarci per i piccoli, sempre schierati dalla parte degli innocenti. E a piangere per quanto non abbiamo fatto abbastanza. E a chiedere perdono per quando non siamo stati capaci di prevenire il male che si annida dentro di noi, fin dentro le nostre famiglie e le nostre comunità. Solo così, insieme, per Grazia, potremo ripartire, portando i pesi gli uni degli altri. Stando accanto a chi soffre e cercando di esserci accanto ad ogni persona ferita e vulnerabile» conclude monsignor Trevisi.

La solitudine e la mancanza di reti: «Occupiamoci della vita degli altri»
A fronte di una vicenda drammatica come l'uccisione di un figlio da parte della madre, quando all'origine sembra esserci una patologia psichiatrica, l'interrogativo ricorrente è sempre lo stesso: «Si poteva evitare?». Sì probabilmente, se solo esistesse una rete, se solo quella patologia, quel disagio, lo si vedesse in tanti e si agisse per arginarlo. Lo ripetono esperti e psichiatri in queste ore, lo esemplifica bene il racconto che recentemente ha fatto nel suo libro Poor (People, 2025) Katriona O’Sullivan, ripercorrendo la sua storia di figlia di due genitori tossicodipendenti che a 15 anni diventa madre per la prima volta e si ritrova sola e senza casa, ma grazie a un’insegnante ora è diventata una docente universitaria che si occupa di istruzione e invita a prendersi cura del futuro delle bambine e dei bambini, consapevole a proprie spese che non si può crescere senza un sostegno e senza legami. «La maggior parte della mia vita l’ho passata in fondo a una trincea. La vergogna della povertà mi faceva sentire come se stessi guadando da sola acque profonde, ma la cosa cruciale che ho imparato scrivendo la mia storia è che, nei momenti più difficili, sono stata presa in braccio. Non sono riuscita a scalare e a uscire dalla trincea da sola, sono stata tirata su. Certamente ho lavorato tanto, ma senza una rete di sostegno non avrei avuto alcuna possibilità di farcela». Il piccolo Giovanni, a Muggia, non ce l’ha fatta. Nessuno lo ha tirato su. E le parole che ha usato il parroco don Andrea Destradi, di cui riferiamo ampiamente nell’articolo a fianco, sono eloquenti: «Siamo sotto choc – dice – toccati nel cuore da una tragedia avvenuta in pieno centro, davanti al Duomo, dove si celebrano le ricorrenze più importanti. La tentazione di erigere ghigliottine, reali o virtuali, è forte, mentre quello che dobbiamo fare è raccogliere questo dolore e farlo fiorire a sostegno degli altri: siamo tutti chiamati a essere custodi della vita degli altri».
Sulla parola comunità e sulla necessità di non deresponsabilizzarsi in questo momento insiste anche Elena Montisci, un’educatrice della parrocchia che non conosceva personalmente la famiglia ma dal suo osservatorio invita a non puntare il dito e l’attenzione sulle eventuali mancanze istituzionali, quanto sulla profonda solitudine che vivono tante persone, in special modo genitori, totalmente privi di una rete di sostegno, sotto pressione in un ruolo che nessuno ti insegna ad affrontare: «C’è molta ansia da prestazione, paura di sbagliare e di conseguenza si tende ad alzare muri, a difendersi preventivamente in maniera aggressiva di fronte a una richiesta o a un’osservazione ad esempio da parte della scuola o della parrocchia o della società sportiva. In tutto questo abbiamo la sensazione che negli ultimi anni sia maturata la consapevolezza che si può fare a meno di una comunità: dopo il Covid constatiamo una grande fatica a riprendere una vita autenticamente sociale, è venuta meno la cultura dello stare insieme. Bisognerebbe lavorare per ricostruire questi legami, fondamentali soprattutto per chi non ha una rete familiare». Perché davvero ciascuno e ciascuna, in special modo i più piccoli, possa poter dire di essere stato preso in braccio.
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