venerdì 20 agosto 2021
L'incontro a Fiumicino con il fratello: «Felici per noi, ma disperati per il nostro Paese»
Zahra Ahmadi

Zahra Ahmadi - .

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L’amore fraterno ai tempi dei talebani e del Covid è tutto in un abbraccio che non avrebbe dovuto esserci, per via dei protocolli. Tuttavia, dopo giorni di whatsapp, dopo la paura percepita via messaggi vocali, dopo silenzi terrificanti di ore senza connessioni visibili o spunte blu, è stato il gesto umano e commosso di un militare a superare il protocollo. Hamed Ahmadi racconta di aver ottenuto così l’autorizzazione all’abbraccio con sua sorella Zahra, finalmente atterrata a Fiumicino. «Tristezza e gioia, lacrime e sorrisi – dice –, una parte di me balla dalla felicità, l’altra è disperata per il mio Paese ».

È una storia struggente di coraggio, di paura di morire, di viaggi e di solidarietà quella di Hamed e Zahra, riuniti in un momento imprevisto, pronti ad aprire una pagina nuova delle proprio vite e contemporaneamente consapevoli che, per un tempo che è impossibile definire, si chiude ogni rapporto con la propria terra, l’Afghanistan. Hamed era arrivato a Venezia nel 2006, invitato come regista alla Mostra d’arte cinematografica per presentare i suoi lavori, prodotti dalla Kabul Film. «Uno era un documentario sulla difficoltà di reperire acqua potabile, l’altro un corto a tema religioso, in cui una bambina pregava e leggeva il Corano per far sì che la nonna non morisse, cosa che alla fine succede. Il senso che volevamo trasmettere è che Dio ha piani a noi incomprensibili, ma il significato non fu recepito così.

Quel cortometraggio, infatti, venne fortemente criticato da alcune radio iraniane e afghane, perché interpretato come un messaggio contro la religione. Mi resi conto che era meglio non tornare in Afghanistan, almeno per un po’». Sono passati 15 anni: prima in un centro di accoglienza, poi giardiniere al Museo Guggenheim, mediatore culturale e, infine, imprenditore del cibo. Già, perché Hamed oggi è un cittadino veneziano che si muove agilmente in motoscafo fra i canali e ha aperto tre ristoranti che sono vere imprese sociali. Di quei giorni al centro di accoglienza Hamed non si è mai dimenticato, così i suoi ristoranti hanno chef e personale che arriva dalla sua stessa esperienza di migrante e propone menù con piatti tipici di ogni Paese della tratta balcanica, quella che ha portato in Italia quei ragazzi da est e della tratta africana, quella percorsa da sud, fino a noi.

Senza retorica, il gusto del cibo e l’atmosfera che si respira in quei ristoranti è diversa e Hamed ha dimostrato senza troppe parole che cosa sia il concetto di inclusione, offrendo lavoro, dignità, speranza a tante ragazze e ragazzi che proprio per quella speranza si sono messi in viaggio. In questi 15 anni Hamed era riuscito a portare in Italia tutta la sua famiglia. Mancava solo Zahra, la sua sorellina 32enne, anche lei imprenditrice del cibo a Kabul con un nuovo ristorante da aprire proprio in questo week-end. Era tutto pronto, da settimane. Poi il ritiro delle truppe Usa, l’avanzata dei taleban, la caduta di Kabul e un discorso fatto in una piazza davanti ad altre donne, giovani e attiviste come lei, il 14 agosto.

Da quel momento ogni progetto ha lasciato spazio al terrore di essere catturata, stuprata, uccisa. Da quel momento ogni contatto con Hamed era orientato al tentativo di scappare dalla sua terra, dai suoi ristoranti, dal suo passato. Un’enorme ed efficiente macchina diplomatica e militare è riuscita a farla arrivare in aeroporto dopo essere stata respinta una prima volta dagli americani perché civile, dopo essere stata, in un secondo tentativo, brutalmente allontanata, fortunatamente senza essere riconosciuta, a 50 metri dalla salvezza, da un check point talebano e dopo 72 ore senza dormire un minuto, ospite in un rifugio nei pressi dell’aeroporto ormai preso d’assalto di migliaia di suoi connazionali. Zahra ce l’ha fatta e Hamed ha subito protetto il suo sogno: «Apriremo quel ristorante, con lo stesso nome, a Venezia o dove Zahra vorrà». Ma Zahra vuole anche un’altra cosa: che nessuno dimentichi chi è rimasto a Kabul, in particolare quelle donne a cui lei aveva parlato. Questo compito adesso spetta a noi, perché Zahra è arrivata qui per tenere una luce accesa.

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