lunedì 5 agosto 2019
Una storia al giorno. "Avvenire" racconta vite di migranti sospese, ai margini dell’accoglienza, bloccate dallo stop alla protezione umanitaria, in mano alle commissioni. Un grido da ascoltare
Il lavoro non basta. Una legge che sembra fatta apposta per garantire illegalità e lavoro nero

Il lavoro non basta. Una legge che sembra fatta apposta per garantire illegalità e lavoro nero

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«Mi ha chiamato l’avvocato dell’associazione dove ero ospite. Mi ha detto che dovevo andare in questura. Ci sono stato il giorno dopo e mi hanno dato un foglio. C’è scritto che non posso restare in Italia. Poi mi hanno ritirato il permesso di soggiorno. Da quando è successo non dormo più la notte. Non so come devo fare». M.F. è un giovane ragazzo del Mali. Da cinque anni e tre mesi vive in Italia. Convocato dall’Ufficio immigrazione della polizia di Taranto, ha saputo di essere stato espulso. Fatta domanda di asilo, gli è stata negata in Commissione territoriale. M.F. dopo il ricorso contro la decisione della Commissione ha perso anche l’appello.

Così il suo avvocato ha deciso di fare domanda di reiterazione, cioè ha chiesto che la situazione del giovane maliano venisse riconsiderata dalla Commissione territoriale sulla base dell’integrazione sociale. Lui ormai a Taranto ha tanti amici, un’occupazione seria ed un’abitazione già pronta. «La signora che me la voleva affittare è stata gentile. Ha detto che non la dà a nessuno. Aspetta che mi ridiano il permesso di restare». Ma questo difficilmente accadrà.

La Commissione, che decide chi va e chi resta, ha considerato inammissibile la domanda e, respingendola, immediata è scattata l’espulsione. Sei giorni di tempo per lasciare l’Italia. Dove e come farlo, non è un problema dello Stato. A maggior ragione quando si tratta di Mali, un territorio politicamente instabile, con cui, almeno momentaneamente, non sembrano esserci accordi per rimpatri aerei. «Ma perché mi stanno facendo questo? – domanda stordito M.F. – dopo cinque anni, dopo aver imparato l’italiano? Da quando sono qui ho lavorato in campagna, poi mi sono pagato un corso da bagnino, con i soldi messi da parte e già da qualche anno lavoro in uno stabilimento, in regola. Perché non posso restare?».

Difficile spiegargli che in Italia, se entri dal mare e sei un irregolare che chiede protezione, anche se lavori non importa. Enzo Pilò, legale rappresentante dell’associazione Babele, occupandosi di integrazione, M.F lo conosce da anni. «Il problema è che l’Italia è uno dei pochi Stati, in area Schengen, che non dà la possibilità di regolarizzare la posizione di un richiedente asilo al quale è stato negato un qualsiasi tipo di protezione.

Regolarizzarsi attraverso il lavoro da noi non si può. Abbiamo una legislazione sull’immigrazione che sembra fatta apposta per essere strumento di caporali e del mercato del lavoro nero. Sembra quasi che le persone vengano messe in condizione di non potersi più regolarizzare, di dover vivere nascosti, perché questa cosa è funzionale ad un sistema economico illegale, che non si vuole combattere».

Così la storia di M.F. rischia di diventare quella dell’ennesimo fantasma che va ad ingrossare, inevitabilmente, il bacino di utenza della criminalità organizzata. «Due fratelli e cinque cugini sono in Francia, a Parigi, da tanti anni – continua a raccontare – e uno ha sposato una donna francese. Hanno dei figli. Lui infatti ha la cittadinanza francese. Mi chiamano a tutte le ore, in questi giorni. Mi dicono di andare lì, ma non è facile». Si tratterebbe di rimettersi in marcia ancora una volta pagando dei trafficanti e passando illegalmente la frontiera. In tanti ci stanno provando. Non tutti ci riescono.

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