giovedì 19 settembre 2013
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Mi viene da piangere. Facciamolo insieme. Aiutiamoci ancora. Rimaniamo uniti. Sosteniamoci a vicenda. Rivedo le ruspe che scavano a Casal di Principe. Scendono nel cuore della terra. Rivedo tornare a galla i veleni che furono interrati. Gli addetti ai lavori sono imbarazzati. I nostri giovani piangono. Lacrime. Pianto che purifica. «Non c’è niente di nascosto che non debba essere svelato». Lo disse Gesù parlando del peccato. Vale anche per la nostra terra scempiata. Vomita veleni e fanghi. Fusti schiacciati e arrugginiti.Ci teniamo a debita distanza. Abbiamo paura. Vomita la terra. Si libera da un peso immenso. Come sempre ha tentato di avvertirci. E noi, ottusi, testardi, non volevamo capire. In quel luogo, ci sono cinque pini secolari. Tre, un tantino più distanti, sono verdi come il mare. Due, invece, le cui radici affondano sul terreno avvelenato, sono secchi. Disseccati per sempre. Sembrano scheletri in cerca di sepoltura. Piangono anche i pini senza più vita. «Pazzi…pazzi… pazzi… – ci dicono – stolti… stolti… stolti…», ripetono singhiozzando. La tristezza mi invade. Come quando riesumammo mia mamma. Lo stesso dolore. Lo stesso nodo alla gola. Le stesse domande. La stessa voglia di scappare. Un peso sul cuore. Un solo desiderio. Allora come oggi. Essere uomo. Costi quel che costi. Non galantuomo. Uomo. Uomo senza titoli. Senza aggettivi. Uomo.Rivedo le ruspe in azione. Le persone con le tute bianche. Gli automobilisti stupiti. I carabinieri. La polizia. I giornalisti. I volontari. I fotografi. I vigili del fuoco. I passanti. Rivedo i nostri antenati. Zappano. Seminano. Irrigano. Sudano. Poi, all’ombra di quei cinque pini, consumano la merenda. Tanto pane nero e poco companatico. Un pezzo di grasso di maiale. Una frittata di uova con cipolle novelline. Sono stanchi, ma lieti. Stanno lavorando anche per noi. Non ci conosceranno mai, ma vogliono bene ai loro eredi. Si raccontano la vita. Si prendono in giro. I più giovani tirano su dal pozzo il vino (lo hanno tenuto al fresco per gustarlo meglio). Poi riprendono a lavorare fino a sera. Si rompono la schiena. La casa bassa, screpolata, costruita con le pietre di tufo delle nostre cave, li accoglie come vecchi amici. Nel cortile starnazzano le anatre. I maiali vengono spinti nel porcile. Dalla Chiesa del Santissimo Salvatore, i rintocchi di una campana antica ricordano ai distratti che è tempo di ringraziare Iddio. Lo fanno. Ciascuno traccia un segno di croce sul petto. Le donne lo fanno lentamente, scandendo le parole. Aggiungendo al gesto una preghiera: «Ave Maria, piena di Grazia, il Signore è con te…». Gli uomini, invece, portano furtivi la mano alla fronte per farla scendere veloce verso il cuore…Oggi sono rossi di vergogna. Con quelle stesse mani si coprono il volto. Volti consumati dalla fatica e dal sole che in estate a Casal di Principe picchia forte. Ci rimproverano: «Che cosa avete combinato? Perché lo avete fatto? Perché avete ucciso vostra madre? Da questa terra siete nati voi. Ingrati…». Il rumore assordante delle ruspe mi richiama alla realtà. Dura e triste. Sono stanco. Vado via. Ho bisogno di stare solo. Solo con me stesso. Solo con il mio mistero. Solo con il mio Dio. «Se il chicco di grano non muore non porta frutto…». Il chicco di grano è marcito. Il popolo è pronto. Occorre stargli accanto. I bambini sono stupendi. Bisogna pensare al loro futuro. «Non è morto, ma dorme…». Sento rimbombare dentro le parole di Gesù. E Lazzaro ritorna in vita. Risorge. Tra lo stupore dei presenti e la gioia di chi gli voleva bene. Vado a riposare, domani si riparte. Viene il tempo della bonifica. E c’è tanto da bonificare (che vuol dire rifare buono: bonu(m) facere. Come Lazzaro, anche questa nostra terra ritornerà alla vita. I nostri figli ci benediranno. Per noi farfuglieranno una preghiera. Il Signore non ci metterà alla porta nel Giorno ultimo e tremendo. Rimbocchiamoci le maniche. Si torna a lavorare. Con don Peppino Diana ripetiamo ancora: «Per amore del nostro popolo non taceremo».
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