mercoledì 15 maggio 2019
Al Buena Vita di Milano, tra clienti settantenni e mamme che entrano con i figli per il “regalo di maturità” Business milionario, regole ancora incerte.. Il titolare: noi non siamo spacciatori
Viaggio nei misteri della cannabis
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«Una cosa è certa: non siamo spacciatori ». Giorgio Biondi apre la porta del suo Buena Vita – cannabis store tra i più gettonati a Milano e in Lombardia, con due sedi fisiche, 25 dipendenti, oltre 600 prodotti a catalogo e 4mila clienti registrati – partendo dalla fine. Cioè dalla «guerra» dichiarata ai negozi di cannabis light dal ministro dell’Interno Matteo Salvini settimana scorsa. Ma nella bella sala a tinte ocra, con gli scaffali pieni di prodotti colorati e dai nomi accattivanti (si va da Gioconda a Marylin), tutto è cominciato oltre un anno fa.

Quando deviando dall’avventura imprenditoriale nel campo dell’informatica, Giorgio si è lanciato in quello promettente della canapa. «Siamo partiti con un punto vendita a Segrate, in periferia, e tuttavia in una zona residenziale, pensando a un target medio alto di clienti». In effetti tra i capannoni della logistica e il via vai dei corrieri, è un inaspettato pellegrinaggio di suv e uomini di mezza età dai modi distinti: tutti clienti abituali, che vanno via con la loro dose di infiorescenza legale. Qualcuno la sostituisce al cortisone nella cura dell’allergia ai pollini (e già che c’è compra pomate per l’arrossamento da pannolino per i bambini), qualcun altro la fuma e basta «ma ormai è la mia droga ».

La linea di confine, labilissima agli occhi di chi entra per la prima volta in questo tipo di negozio, per Giorgio invece è netta: «Qui non si cerca droga, perché qui non si vende droga. Molto semplice». Il riferimento è alla legge. La 242 del 2016 per l’esattezza, che ha liberalizzato la coltivazione della cosiddetta cannabis light – ovvero con percentuale di tetraidrocannabinolo ( Thc) compresa tra l’0,2% e il 0,6% – e la sua commercializzazione a fini alimentari e cosmetici, senza tuttavia menzionare il possibile consumo umano. Una “lacuna” destinata a generare equivoci fino al prossimo 31 maggio, quando la Cassazione (per la prima volta a sezioni unite) si esprimerà definitivamente su questa possibilità.

E sul punto dirimente per questo segmento di mercato, e non solo: se la cannabis light sia da considerarsi sostanza da effetti psicotropi oppure no, e quindi sia effettivamente commercializzabile. In ballo, dal punto di vista di Giorgio e degli altri imprenditori che hanno avviato attività come la sua (circa mille da Nord a Sud secondo gli ultimi censimenti), ci sono interessi economici da capogiro: «L’Europa, e in particolare l’Italia, sono mete ambitissime in questo momento per gli investitori – spiega ancora Giorgio, che in prima persona investe su “ prodotto tutto italiano”, acquistando la canapa dalle piantagioni fiorite come funghi proprio in Lombardia, tra Pavia, Asti, Monza Brianza, la Val Brembana –. Negli ultimi mesi il fondo canadese Lgc Capital ha comprato per 4,8 milioni di euro il 47% dell’italiana EasyJoint, la prima e più importante società attiva nel settore della cannabis light. Per noi è un segnale importantissimo».

Lo interrompe una signora sulla settantina, che entra col suo carnet di acquisti per il timbro quotidiano. Giorgio ne approfitta per una precisazione sui clienti anziani: «Gli over 65 hanno importanti sconti – spiega – , in considerazione delle loro patologie. Generalmente li mandano i medici di base, che non vogliono più prescrivergli antidolorifici o benzodiazepine. E per molti noi siamo l’anello di collegamento con altri medici per la prescrizione di cannabis terapeutica». Un circuito che ne alimenta un altro, differente, visto che la cannabis terapeutica necessita di prescrizione e contiene percentuali più alte di Thc. E i minori? «Non si vedono. Soltanto il 5% dei nostri clienti ha meno di 25 anni e in ogni caso noi facciamo firmare un modulo di registrazione a chiunque effettui un acquisto qui, chiedendo di inserire i suoi dati. È un filtro, sia per i malintenzionati, sia per i più piccoli».

Poi, però, capita che nel negozio arrivino figli accompagnati dalle madri: «Ricordo dei ragazzi che avevano appena fatto la maturità. Le mamme mi hanno detto che preferivano far fumare ai figli qualcosa di legale qui, come regalo, che la marijuana a scuola. Nelle scuole d’altronde la maggior parte dei ragazzi si fa le canne o le prova, e lo spacciatore qui all’angolo della via vende hashish tranquillamente... ».

L’attenzione ai minori è anche una delle regole contenute nel decalogo che proprio ieri Canapa Sativa Italia, l’associazione che riunisce gli operatori della filiera della cannabis light italiana, ha diffuso tra i suoi soci per evitare «il più possibile problemi» nel caso dei controlli a tappeto promessi da Salvini: «Chiedere sempre i documenti prima di vendere qualsiasi cosa. Troppo spesso abbiamo visto “leggerezze” in questo senso, a volte in buonafede, a volte no» ammette per iscritto l’associazione. Che all’elenco aggiunge, per la cronaca, anche queste raccomandazioni: «Mai dare indicazioni sulle modalità di consumo », «Mai parlare direttamente dei benefici dei prodotti», «Niente sfuso» e «Analisi reali».

«Quest’ultimo punto non mi preoccupa, noi facciamo verificare tutto dai laboratori dell’Università degli Studi di Milano» aggiunge Giorgio, che mostra tutti i permessi ottenuti per le 12 infiorescenze in vendita sul banco. «L’erba rappresenta la metà delle vendite, deve essere di qualità assoluta e certificata. Altri su questo punto sono più approssimativi, noi no». È il nodo scoperto della filiera e dei controlli, un vaso di Pandora che nessuno vuol scoperchiare nel mondo della cannabis light. Perché se si può verificare, tramite analisi, il contenuto di Thc delle infiorescenze vendute in negozio, mancano invece controlli su come per esempio i prodotti siano confezionati e a partire da quali semi (solo 63 quelli autorizzati a livello europeo). «Noi qui facciamo tutto bene, di quel che fanno gli altri mi interessa poco».

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