mercoledì 18 marzo 2020
Il pastore di Cremona: ho trovato grande umanità e competenza. Tutti i sacerdoti stanno facendo bene quello che è possibile; rimanere a disposizione delle persone, soprattutto le più sole
Vescovo di Cremona. Monsignor Antonio Napolioni

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La voce è ancora provata, nelle sue parole si legge la fatica di chi piano piano si rialza. Ma la forza d’animo e lo spirito dell’uomo di fede prevale. Monsignor Antonio Napolioni, vescovo di Cremona, affetto da Covid–19, è tornato, dopo 10 giorni di ospedale, nel Palazzo vescovile dove continuerà la quarantena. Era stato ricoverato presso l’Ospedale Maggiore di Cremona venerdì 7 marzo mostrando i sintomi di una polmonite riconducibile al coronavirus. Dopo pochi giorni era arrivata la conferma ma le terapie erano già iniziate per contrastare questa piaga che affligge anche la sua città. Lunedì Napolioni è tornato a casa, seguito dall’affetto della sua diocesi e ieri attraverso i social ha anche diffuso un messaggio in cui sottolinea che «la Pasqua rigenererà la speranza e ci rimetterà insieme in cammino».

Che cosa ha provato quando le hanno riscontrato i sintomi del Covid–19?
Ho preso atto. Nei giorni precedenti ero stato in visita pastorale, immerso nei contatti con la gente. I sintomi un po’ li avvertivo, facevo fatica a respirare. Per fortuna la diagnosi è stata immediata e questo ha permesso di ribaltare la situazione nel giro di pochi giorni.

Le sue impressioni sulla situazione in ospedale?
Sono stato isolato. Ho riscontrato grande slancio di medici e paramedici, una lezione di umanità e competenza, di dedizione impressionante. E poi quanto garbo e stile.

Ha avuto contatti con i sacerdoti che sono ricoverati in ospedale?
Li ho sentiti telefonicamente, purtroppo non ho fatto a tempo a sentirli tutti.

Ha percepito l’affetto di chi pregava per lei?
Ho sentito la preghiera corale dei fedeli. L’affetto dei vescovi italiani è stato straordinario, alcuni mi hanno contattato un giorno sì e uno no. Persone di grande livello, capaci di fraternità. Questa è la Chiesa vera, fatta di uomini semplici, fragili ma forti nella fede.

Ha fatto la differenza essere un sacerdote in ospedale?
Ho sentito un grande affetto. Gli operatori chiedono il sostegno della preghiera. Continuerò a pregare per loro e con loro. L’arma potente è mantenersi lucidi spiritualmente, affidarsi al Signore che è padre anche in queste situazioni.

Che cosa porterà dentro di sé di questa esperienza?
È presto per rendermene conto. Nei mesi scorsi tra di me pensavo che il vescovo si deve identificare con la gente. Nelle Marche ero alle prese con il terremoto, a Cremona pensavo a possibili alluvioni, non certo ad una pandemia virale. È la vita che ci chiede di condividere la realtà. Non c’è tempo per fare tanti ragionamenti. Nella realtà non è mai impedito di amare e spendersi o anche solo di sopportare.

Cambierà qualcosa nel suo modo di essere vescovo?
Il Signore evidentemente vuole che il mio servizio continui. Vedremo come, alla luce di questo vissuto. Più che come vescovo deve cambiare qualcosa nello sguardo di tutti nel vedere la realtà. Spesso la guardiamo da spettatori. Questo essere costretti a stare in casa, a porre attenzione alle azioni più elementari, a fermare una vita frenetica, a guardarci negli occhi, fa bene a tutti.

Che cosa suggerisce ai sacerdoti in questa emergenza?
Tutti i sacerdoti stanno facendo bene quello che è possibile: rimanere a disposizione delle persone, soprattutto le più sole. Poi c’è la tecnologia che è un canale per raggiungere la gente con la Parola di Dio. Bisogna reinventare le proprie giornate. Non è necessariamente un male. È una Quaresima assurda ma per un certo verso perfetta. Gesù è nel deserto per quaranta giorni, lotta con il diavolo. La Quaresima non è la bellezza dei riti ma è il mistero profondo del male, della morte e della disperazione che ci sono. Ma anche del Signore che c’è. Bisogna riconoscere la sua presenza.

Come si fa a riconoscere questa presenza davanti a persone che muoiono sole, senza parenti in un letto d’ospedale?
Noi fino ad oggi abbiamo vissuto per anni una situazione privilegiata. I nostri padri e nonni hanno attraversato la guerra, attraversato un’epopea di violenza e di santità. Noi non eravamo abituati, ma possiamo reagire. Certo sconcerta però la realtà spirituale è talmente incarnata che Cristo era li, molto più dei parenti. A volte abbiamo i parenti vicini e non ne capiamo l’importanza. Lasciamo che il Signore consoli tutti.

Andrà tutto bene, come recita lo slogan?
Ogni mamma al bambino che è caduto dice che “non è nulla”. Sa di dire una mezza bugia però noi nelle braccia di Dio siamo questi bambini. Sicuramente questa situazione è una grande scuola sui nostri stili di vita. È noto che il Paese si unisce nel dolore, che si riscoprono i veri rapporti. Poi stanno emergendo risorse di umanità e competenza di cui essere fieri.

Ai malati che cosa dice?
Di consegnarsi con fiducia a chi si cura di loro. Sentendo che ogni istante può essere una ripresa possibile. Non sempre questo accade, però bisogna tener viva la speranza.

La Chiesa che ruolo ha in questa situazione?
È quella madre che custodisce il senso della vita, è questo grande abbraccio che dice: “Vedi ce la stiamo facendo”.

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