sabato 11 maggio 2019
L'80% dei profughi nel campo di Moria sono fuggiti dalle violenze dei taleban e ora si vorrebbe rimandarli là, dove si combatte e ci sono ancora i taleban. Caos e illegalità nei campi.
Giovani madri con i loro bambini nel campo profughi di Moria in Grecia

Giovani madri con i loro bambini nel campo profughi di Moria in Grecia

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Il vento dell’odio sui migranti sferza l’Egeo con cadenza settimanale. Bande di fascisti organizzano aggressioni e pestaggi, specie nella Grecia continentale. Il veleno dell’intolleranza sta però entrando in circolo anche sulle isole, dove fino ad ora la popolazione sembrava al riparo dalle sirene stonate della xenofobia. Solo sottovoce gli agenti in tenuta sfollagente confermano che ci sono in corso “piccole faide” locali. A metà tra estremismo politico e interessi criminali.

Intorno ai campi formali e informali dell’isola di Lesbo si sono sviluppati commerci illegali: droga, alcol, prostituzione. Tutto nell’ombra, in anfratti nascosti senza dare nell’occhio. Il turismo così è salvo, ed è quello che più conta ora che la bella stagione ingolferà gli aeroporti. A pochi giorni dalle elezioni europee il premier Alexis Tsipras dovrà però decidere se prendere posizione sui corridoi umanitari oppure tergiversare. «Purtroppo nel nostro Paese è stato cavalcato ed è cresciuto il risentimento di tanti greci a causa della pesante crisi economica», spiega l’arcivescovo cattolico di Atene, Sebastianòs Rossolàtos. «Gli stranieri sono diventati facile bersaglio – aggiunge –. E la strada della “pacificazione” sociale in Grecia è ancora molto lunga».

Anche per questo la missione vaticana organizzata dalla Sezione Migranti e Rifugiati con la Comunità di Sant’Egidio, vuole lanciare un messaggio di speranza ai migranti e ai greci: aprendo varchi umanitari che possano offrire alternative ai profughi e alleggerire la pressione sulle popolazioni. Caritas Hellas insieme alla Comunità di Sant’Egidio sta registrando decine di casi per i quali è necessario un immediato intervento di evacuazione dai campi. L’ultima parola spetterà al governo che, sulle prime, aveva manifestato il sostanziale accordo alla proposta di ricollocamento arrivata a Lesbo dal cardinale Konrad Krajewski per conto di Papa Francesco, ma adesso prende tempo, adducendo ragioni burocratiche che, a parole, vengono date per «facilmente superabili».

«Abbiamo bisogno di più dialogo, più collaborazione tra le autorità nazionali e la società civile e, dentro di essa, la Chiesa cattolica vuole lavorare con tutte le religioni» insiste l’arcivescovo Jean-Claude Hollerich, presidente della Comece, la Commissione episcopale europea. «Quando le persone soffrono e perdono la speranza, la gente di buona volontà deve reagire», ha proseguito il presule gesuita, ribadendo l’auspicio dei corridoi umanitari a livello europeo, grazie all’azione di diocesi, parrocchie e associazioni cattoliche che si sono dette disponibili a farsi carico di un certo numero di migranti e profughi tra i più vulnerabili.

Nel 2018 nel campo di Moria, dove vivono oltre 4mila persone, era a disposizione un solo medico. Nel 2019 è stato permesso l’ingresso a un ristretto numero di operatori di Medici senza frontiere. Non c’è modo, però, di far accedere i più vulnerabili a cure mediche all’esterno dei centri di identificazione. Oggi all’interno del reticolato ci sono 4.752 persone: l’80 per cento afghani, poi siriani, congolesi, eritrei, etiopi e anche yemeniti. I gestori del campo assicurano che la permanenza media non supera i nove mesi. I documenti che ci hanno mostrato numerosi stranieri, però, fanno risalire il primo accesso ad oltre due anni fa. E non si tratta di casi isolati. «Le procedure di identificazione – lamenta da tempo l’Ong Oxfam – sono cambiate tre volte solo nell’ultimo anno, aumentando il caos di cui sono vittime persone che hanno già sofferto traumi indicibili».

Diverse diocesi europee attendono di poter ricevere a giorni le prime famiglie di profughi. Intanto l’Elemosiniere apostolico ha visitato l’hot spot di Moria, dove tre anni fa Francesco parlò di «situazioni di bisogno tragico e veramente disperato». Le autorità tendono a minimizzare, parlando semmai di «piani di prevenzione del disagio». Gli operatori umanitari non dipendenti dal governo di Atene parlano invece di frequenti casi di autolesionismo, ripetuti tentativi di suicidio, spaccio di droga, alcolismo e abusi sessuali.

L’assistenza sanitaria non è certo la punta di diamante. «Un dottore ha visitato mio padre, abbiamo i documenti che confermano che è malato di cuore, spesso sta molto male. E il dottore gli ha prescritto di bere più acqua». Jila è a Moria da 10 mesi. Come molti altri è afghana, anche se gran parte dei suoi 21 anni li ha trascorsi nei campi di raccolta in Iran. Fuggivano dai taleban. Ora l’unica proposta che ricevono è quella di tornare in Afghanistan, sotto la legge dei taleban. Oxfam ha raccolto nelle settimane scorse drammatiche testimonianze di migranti da tutta la Grecia, «ammassati, esposti a violenza e senza accesso alle cure mediche». Alcune madri «sono state mandate via dagli ospedali a soli quattro giorni da un parto cesareo», si legge in un report. Le puerpere «si sono ritrovate a vivere in una tenda assieme ai figli appena nati».

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