martedì 4 settembre 2018
Il patrimonio della Chiesa non appartiene solo ad essa, perché custodisce le tracce di tante culture ed esperienze umane. Perciò va messo in dialogo con il mondo
Tolentino: la povertà come sete esistenziale è una risorsa
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Quando gli si chiede in che cosa consista esattamente il suo nuovo incarico, monsignor José Tolentino risponde con semplicità e immediatezza: «Dall’Eucarestia in poi, il cristianesimo è una realtà di memoria, un’incessante produzione di memoria: ecco perché la Chiesa ha bisogno di un archivista», dice. Da sabato scorso, 1° settembre, questo sacerdote-poeta portoghese (o poeta-sacerdote: nel suo caso è davvero impossibile separare le due vocazioni) è ufficialmente l’archivista e bibliotecario di Santa Romana Chiesa. Lo stesso giorno si è imbarcato su un aereo diretto in Sicilia e nel pomeriggio ha celebrato messa a Cinisi, nell’ambito della Festa di Avvenire… per passione', realizzata nei giorni scorsi dall’arcidiocesi di Monreale in collaborazione con l’associazione culturale 'Così… per passione'. Sulle Beatitudini, tema scelto per questa terza edizione, monsignor Tolentino ha tenuto domenica un’appassionante lectio magistralis nella chiesa madre di Terrasini, dove in mattinata si era svolta la celebrazione eucaristica presieduta dal cardinale Giuseppe Versaldi, prefetto della Congregazione per l’Educazione cattolica. Poi, in serata, la manifestazione si è trasferita per la cerimonia conclusiva nel cortile di Palazzo d’Aumale, sede del museo locale. Qui, nel corso di un apprezzatissimo concerto del coro polifonico del Balzo, monsignor Tolentino ha ricevuto il premio 'Una vita… per passione', assegnato in precedenza al regista Pupi Avati e allo scrittore Ferdinando Camon.

Gli archivi, le biblioteche, la memoria: hanno ancora senso nel
mondo di oggi?
Già i latini sapevano che ogni libro è destinato a vivere più vite – osserva Tolentino, conosciuto in Italia come firma di Avvenire e come autore di numerosi volumi di spiritualità editi da Paoline, Emi e Vita e Pensiero –. Questo è vero più che mai in un momento come l’attuale. Il nostro compito consiste nel dimostrare che un testo, un documento, una singola pagina non sono confinati nel passato, ma costituiscono una testimonianza di verità e di bellezza che chiede di essere ancora ascoltata. Gli obiettivi sono due: conservare il tesoro di cui siamo eredi e insieme metterlo in dialogo con la contemporaneità. Il patrimonio della Chiesa non appartiene alla Chiesa soltanto, perché custodisce le tracce di tante culture, di tante esperienze umane.

Qual è il rapporto tra questa attività e la poesia?

La poesia non è mai separata dalla parola comune. È una forma di conversazione, sia pure nel silenzio, nella profondità, nell’immaginazione. Qualcosa che non può essere altro detto in altra forma e che nello stesso tempo si infiltra nella realtà quotidiana, negli spazi vuoti, nei tempi sospesi che ci danno l’opportunità di ascolto. La poesia, per me, è legata principalmente all’udito: esiste già, tutto sta a saperne coglierne la voce. Da questa attenzione, da questa accoglienza e ospitalità, nasce la poesia come la intendiamo solitamente, in forma di versi e parole. Ma la poesia, esattamente come Dio, sta in ogni minimo evento della nostra giornata, segue i nostri passi, è il mistero folgorante che abita nella vita di ciascuno.

Quando si è reso conto di essere poeta?

Fino al momento in cui si scrive, non si è mai sicuri di essere poeti. Per me è una scoperta che si ripete ogni volta che poso la penna sul foglio. Sarebbe sbagliato pensare che un poeta 'faccia' le poesie. Semmai è vero il contrario: il poeta è un’invenzione della poesia che sta scrivendo e da cui viene rivelato a se stesso. I versi sono uno specchio sorprendente, inatteso, che ci lascia cogliere un frammento altrimenti sconosciuto della nostra personalità. Al di fuori di questa lotta di Giacobbe con l’angelo, nessuno può dirsi poeta.

E la vocazione sacerdotale?
Sono entrato in seminario molto giovane. Già da bambino avevo un forte senso religioso, senza dubbio favorito dall’educazione ricevuta in famiglia, ma sostenuto in particolare dall’intima certezza di essere amato da Dio. Questa dimensione mi accompagna da sempre ed è quanto di più prezioso ho nella mia vita. Il percorso compiuto in seminario, sia negli studi sia nell’attività pastorale, mi ha preparato a dire di sì alla chiamata che mi era stata rivolta. Essere sacerdote, per me, significa vivere in pienezza la vita cristiana. È una storia d’amore che si rinnova ogni giorno, un filo narrativo che conferisce unità alla mia esistenza. E di cui sono molto grato.

Com’è nato il suo ultimo libro, 'Elogio della sete'? Dagli esercizi spirituali che papa Francesco mi ha chiesto di tenere nel febbraio scorso. Qualche mese prima, in novembre, avevo ricevuto una telefonata di buon mattino: era il Santo Padre, che mi invitava appunto a predicare a lui e alla Curia romana. Voleva che scegliessi un tema che mi stava a cuore, un argomento che nascesse dalla mia condizione di 'povero prete', come mi era venuto da definirmi. «La povertà è una grande risorsa», mi ha ricordato. Mi sono fidato e subito, d’istinto, ho pensato all’esperienza della sete, che è comune a tutti, credenti e non credenti. La prospettiva antropologica è quella che più facilmente permette l’incontro, specie quando si tratta di una realtà paradossale e difficile come la sete. Che provoca dolore e rappresenta un’apertura, è un cammino di austerità e risveglia il desiderio. E va benedetta, come tutto nella nostra esistenza chiede di essere lodato nella sua capacità di suscitare stupore, indurre al ringraziamento, ricondurre all’innocenza.

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