sabato 17 aprile 2021
Il recovery fund porterà risorse economiche importanti ma occorre avere idee chiare per non gettarle al vento (e alle mafie)
Sanità sul territorio da riorganizzare e rilanciare, in gioco 10 miliardi

Ansa

COMMENTA E CONDIVIDI

I soldi non risolvono, ma aiutano. La saggezza popolare funziona anche in sanità. Lo attestano i "cervelloni" del Cergas, il centro di ricerca tematico dell’Università Bocconi di Milano. «Il Recovery fund ci porterà soldi per nuovi ospedali di comunità e risorse per assumere infermieri, persino per sviluppare nuove competenze ma non ci fornirà un ridisegno dei servizi sanitari. A quello ci dobbiamo pensare noi», ha spiegato ieri Francesco Longo, docente di Social and Political Sciences e direttore dell’Osservatorio sulle aziende sanitarie della Sda Bocconi, nell’introdurre, con Valeria Tozzi e Rosaria Taricone, il webinar che ha messo a confronto quattro regioni e il governo sulle prospettive della sanità territoriale.

Tutti d’accordo che dopo il Covid-19 nulla sarà come prima e che non si potrà più organizzare l’offerta di servizi sanitari soltanto intorno alle strutture ospedaliere. Più complicato stabilire come si debba cambiare modello. Il governo ha le idee chiare, a sentire il direttore generale della Programmazione sanitaria del ministero della Salute Andrea Urbani. «Il primo passo è condividere una visione – ha detto di fronte agli assessori di Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Campania – e il Piano nazionale di ripresa e resilienza è un’occasione unica per far fare un salto di dieci anni ai sistemi sanitari che sono in ritardo». Nel concreto, l’esecutivo si appresta a fare «investimenti importanti» in mezzi e persone – dieci miliardi per la sanità territoriale – a patto che, e questo Urbani lo ha detto chiaramente, le Regioni siano disposte a sottostare a regole chiare: «Una cornice di riferimento, che identifichi le regole e gli standard minimi».

A chiarire quanto potrebbe essere lontana la ricaduta concreta del Recovery fund da certe aspettative "spendaccione" dei territori, è stato l’assessore alla sanità della Regione Campania, Ettore Cinque, il quale ha ricordato che il piano della sanità territoriale – varato a fine 2019 e mai attuato, perché è esplosa subito dopo l’emergenza coronavirus – torna adesso di attualità. «La vera difficoltà di quel piano era di trovare delle risorse aggiuntive per fare lo start up della nuova sanità territoriale – ha raccontato –, dopo anni di sovrafinanziamento del sistema ospedaliero e di sottofinanziamento del territorio.

Sapevamo e sappiamo di dover andare a un riequilibrio anche finanziario ma siamo consapevoli che dovrà essere graduale e che dovrà esser fatto con risorse aggiuntive per non generare la sensazione, dirottando fondi dagli ospedali, di un arretramento di qualità e livello di servizio. Perciò abbiamo inventato un fondo di accantonamento per start up e la prospettiva si amplia con il Recovery, ma sempre conservando la logica della sostenibilità nel tempo: cioè il nostro riequilibrio del sistema deve essere orientato alla sostituzione e non alla sovrapposizione di offerta».

Mentre la Campania si appresta comunque a ridurre le risorse agli ospedali, l’Emilia Romagna prosegue un percorso già avviato, come ha spiegato l’assessore Raffaele Donini, quello delle case della salute che associano medici di medicina generale e altre figure professionali: «Hanno ridotto accessi al pronto soccorso del 21%, hanno ridotto del 3,6% i ricoveri per le patologie trattabili in ambulatorio e hanno intensificato del 9% l’assistenza domiciliare. Ora stanno vaccinando la popolazione...».

In Veneto, analogamente, si lavora da tempo sulle medicine di gruppo integrate (il 57% dei medici di medicina generale già lavora in centri condivisi dove si integrano le competenze), ma il cuore pulsante della sanità di quella regione restano i distretti, ha detto l’assessore Manuela Lazzarin, che si prepara a investire su formazione e digitalizzazione utilizzando proprio queste strutture. Peraltro, sul ruolo centrale della digitalizzazione nel rilancio della sanità territoriale sono sembrati d’accordo tutti, emiliano-romagnoli in testa, forse anche con qualche eccesso d’ottimismo.

A sorpresa, l’unica Regione che si è mostrata molto scettica sul fatto che dopo l’emergenza sarà semplice riformulare l’offerta della sanità territoriale è la più popolosa, la Lombardia. Giovanni Pavesi, direttore generale del Welfare, ha parlato di «troppi ambulatori brutti e piccoli, c’è la necessità di investire dove lavorano il medico di base e lo specialista, c’è un problema di produttività di queste strutture. Devono essere meno, più accoglienti e integrate».

Pessimismo anche sugli organici: «Abbiamo 6.049 medici di base e ogni mese ne perdiamo qualcuno – ha evidenziato il dirigente –. Di fronte alla cronicità, che è il mercato crescente, diminuiscono le truppe. E poi abbiamo tanti specialisti che non hanno tanta voglia di andare sul territorio… La figura del medico di base non deve più essere svalutata e il medico ospedaliero deve accettare di spostarsi di tanto in tanto sul territorio per realizzare davvero l’integrazione di cui parliamo».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: