sabato 28 settembre 2019
«Non mi riconosco nella sentenza della Consulta, che tradisce la cultura di difesa e intangibilità della vita su cui il nostro Paese e l’Europa hanno costruito i fondamenti del diritto»
Nina Daita, Cgil

Nina Daita, Cgil

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«Lo Stato deve garantire il diritto a vivere, non quello a morire. Ma di quale libertà stiamo parlando: quella dell’annullamento di sé? Quale cultura promuove questa sentenza: che i malati gravi, i disabili, coloro che soffrono hanno la libertà di essere terminati da altre persone? E questo sarebbe un progresso?». Nina Daita è la responsabile nazionale delle politiche a favore dei disabili della Cgil. E si trova con un altro parere rispetto alla linea espressa dalla confederazione di «grande soddisfazione per la pronuncia della Consulta».

Coloro che plaudono alla sentenza sottolineano che si tratta di una scelta di libertà in più per le persone. Perché non è così?
La libertà di rifiutare le cure, di evitare l’accanimento terapeutico, di arrivare a una fine senza sofferenze per i malati terminali, attraverso le cure palliative e la sedazione profonda, esiste già, è garantita dalla Costituzione e dalle leggi. Invece oggi si tradisce la cultura di difesa, di intangibilità della vita su cui il nostro Paese e l’Europa hanno costruito i fondamenti del diritto per cedere a una visione nichilista e utilitaristica della persona e della vita stessa. In nome di una presunta dignità che viene riconosciuta dalla società – e di conseguenza percepita dalle persone stesse – solo e se si è in salute, efficienti, non-sofferenti. E invece la sofferenza, l’imperfezione, la malattia sono parte imprescindibile della vita di ognuno: giusto e doveroso far di tutto per alleviarla, ma non pensare di eliminarla rescindendo la vita stessa.

Chi è favorevole sottolinea che si tratta della libera scelta di un malato gravissimo impossibilitato a suicidarsi, che viene aiutato da qualcun altro, autorizzato e controllato dallo Stato…
Se ci si riflette è agghiacciante che lo Stato garantisca questo. È come se di fronte a un aspirante suicida in bilico su un cornicione, per rispettare la sua volontà di farla finita, lucida e magari espressa più volte, si chiamasse un medico o un poliziotto a dargli l’ultima spinta. Non è aberrante? Lo Stato deve garantire la vita e i diritti di cittadinanza, non quello a morire su richiesta. E ciò che io sperimento quotidianamente incontrando le persone disabili è che la loro domanda non è quella di morire, ma di godere del diritto alla salute, a una vita dignitosa e piena, alla integrazione e alla partecipazione nel lavoro e nella società, a un’assistenza adeguata. Soprattutto a non restare soli. Nessuna madre mi ha mai espresso il desiderio che il figlio malato o disabile venisse fatto morire, ma si preoccupano piuttosto del “dopo di noi”, di chi si prenderà cura dei loro ragazzi. È tutto questo ancora da realizzare pienamente e di cui dovrebbe preoccuparsi lo Stato. Non di agevolare il suicidio di chi è disperato. Con il suicidio assistito, invece, si alimenta una cultura fortemente negativa e carica di rischi, in particolare per i disabili.

Quali rischi teme?
Uno Stato giusto e solidale, una società coesa, sta accanto ai propri malati e disabili e li aiuta, protegge la vita come un bene prezioso. Il messaggio culturale che emerge dalla sentenza è invece che l’autodeterminazione sarebbe più importante della vita stessa a prescindere da tutti i legami sociali, che la vita vale solo se è degna e che questa dignità non è più un obiettivo a cui tutti dobbiamo tendere, ma si misura con un metro personale e soggettivo nel migliore dei casi, in realtà indotto da modelli e considerazioni imposti dall’esterno.
Perciò temo che si scivoli naturalmente nell’eutanasia generalizzata, di cui disabili, malati e anziani sarebbero i “clienti” in buona parte indotti e che si arrivi poi alla selezione diretta delle persone fragili e “imperfette” perché conviene economicamente. Non si tratta di vagheggiamenti: lo vediamo già accadere in Paesi come l’Olanda e il Belgio, in cui si ricorre all’eutanasia per migliaia di persone, o in Danimarca dove si promuove una società senza più bambini con sindrome di Down, eliminando alla radice la loro esistenza. La cultura di morte che questa sentenza esprime e il messaggio sotteso che lancia in particolare a malati e disabili è: "Tu soffri, costi e quindi se decidi di farti da parte, di morire, è meglio per tutti". Come possiamo riconoscerci umani e compassionevoli in questo?

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