martedì 29 settembre 2020
Tre docenti dell'università di Padova: occorre studiare in modo interdisciplinare il meccanismo che preserva gli asintomatici. L'importanza dello stile di vita per limitare l'infiammazione
Analisi di laboratorio sul coronavirus

Analisi di laboratorio sul coronavirus - Reuters

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Immaginate un incendio divampato in un angolo di casa vostra. E ora immaginate solerti pompieri che dirigano nelle stanze il getto di potenti estintori… tanto potenti da non riuscire più a fermarli nemmeno quando le fiamme sono domate, al punto che il malcapitato (voi) alla fine muore non per il fuoco, ma soffocato dalla schiuma inarrestabile. La metafora dell’estintore, che solo in alcuni individui è difettoso e non si disattiva più, rende bene ciò che, dopo mesi dall’inizio della pandemia, è ormai chiaro, ovvero che i morti di Covid sono uccisi non direttamente dal virus, ma dalla sproporzionata reazione messa in atto dal loro stesso corpo per reagire contro l’estraneo.

Se questo oggi è diffusamente accettato, altri misteri circondano ancora il morbo venuto dalla Cina e tuttora in gran parte sconosciuto. Primo tra tutti: come mai solo una minima parte dei positivi (o contagiati) si ammala o addirittura muore, mentre la stragrande maggioranza di essi convive perfettamente con il virus, molto spesso senza presentare alcun sintomo?

Se a ucciderci non è il virus stesso, ma l’eccesso di autodifesa che il nostro corpo mette in atto scatenando quella reazione infiammatoria che solo in Italia ha causato oltre 35mila vittime (*** aggiornamento del 15 gennaio 2021: le vittime sono 81mila) (la schiuma irrefrenabile degli estintori), qual è il meccanismo di tutto questo? Cos’è quel “qualcosa” per cui nella stessa famiglia un convivente muore e l’altro al massimo è positivo ma non si ammala? Scoprire questo “quid” misterioso potrebbe essere la chiave per sconfiggere una pandemia che mette in ginocchio il mondo, visto che un vaccino e dei farmaci realmente efficaci sono lontani a venire. Ma arriveremo a capire che cosa preserva gli “asintomatici”? Ed è corretto chiamarli così? Non sono malati ma nemmeno compiutamente sani, dato che ospitano il virus, dunque cosa sono realmente? E sono o no un’ineludibile fonte di contagio?

Partendo da discipline diverse, il microbiologo Andrea Crisanti, il biologo molecolare Stefano Piccolo e il biochimico Fulvio Ursini del Dipartimento di Medicina molecolare dell’università di Padova convergono su un concetto condiviso: «Fino a oggi si è operato con gli strumenti dell’epidemiologia, dividendo la popolazione in sani, malati, guariti e deceduti, una necessaria semplificazione che non descrive la reale complessità e che non riesce a definire la componente rilevantissima di soggetti infetti ma non sintomatici. Più correttamente va detto che gli “asintomatici” raggruppano sia pochi soggetti che a breve si ammaleranno, sia moltissimi soggetti che invece rimarranno perfettamente sani: questi ultimi noi li chiamiamo “tolleranti”», spiegano ad Avvenire. Un termine che già ci introduce nel fulcro della questione: «La gran parte dei positivi non sviluppa la malattia perché è capace di convivere con il virus». È appunto tollerante al Sars-Cov-2.

In senso orario: Fulvio Ursini, biochimico - Andrea Crisanti, microbiologo - Stefano Piccolo, biologo molecolare

In senso orario: Fulvio Ursini, biochimico - Andrea Crisanti, microbiologo - Stefano Piccolo, biologo molecolare - .

Il segreto dei “tolleranti”

«Non sono note le ragioni per cui molti sviluppano questa “tolleranza” – chiarisce Andrea Crisanti – ma è chiaro che il merito difficilmente è degli anticorpi». Lo stesso discorso può essere fatto al contrario: «Dobbiamo capire per quale motivo solo una minima parte dei contagiati invece si ammala seriamente». Torniamo così alla metafora iniziale degli estintori, cioè della esagerata risposta dell’organismo contro il virus: «Il nostro corpo per difendersi da chi riconosce come uno “straniero” attiva una risposta infiammatoria, ma se questa sfugge al controllo alla fine danneggia noi». È come far esplodere una bomba per uccidere una zanzara: morirà certamente la zanzara, ma con lei distruggiamo noi stessi.

Un’intuizione che trova conferma in altri campi della medicina, dato che «situazioni simili sono già note da tempo per spiegare il prodursi di diverse malattie degenerative, allergie, sepsi, e persino tumori», sottolinea il biologo molecolare Stefano Piccolo, «tutte patologie spesso riconducibili proprio a una risposta esagerata del nostro corpo nel tentativo di combattere il nemico». Le persone “tolleranti”, invece, per qualche sconosciuto motivo sono dotate della capacità di mediare con l’intruso, scendendo continuamente a patti con esso invece di scatenare armi di difesa (l’estintore, la bomba) alla fine portatrici di severi “danni collaterali”. Ma come fanno?

«La prospettiva futura è capire i meccanismi per riuscire a perseguire la tolleranza al Sars-Cov-2, come recentemente ha proposto anche Janelle Ayres su Science», indica Crisanti. Quando la pandemia di Covid è insorta, la fisiologa del californiano Salk Institute for Biological Studies stava già da tempo sperimentando sui topi il concetto di “tolleranza”: somministrata un’infezione che causa diarrea, ha confrontato i tessuti delle cavie morte e di quelle sopravvissute, alla ricerca delle differenze. La scoperta è stata illuminante: «Gli animali che non avevano sviluppato la malattia avevano usato le loro riserve di glucosio per appagare i batteri affamati, che una volta pacificati non rappresentavano più una minaccia», spiega il biochimico Fulvio Ursini. In pratica topi e batteri avevano “patteggiato”. Trasformando poi questa osservazione in trattamento, lo stesso meccanismo è stato indotto in altri topi e tutti sono sopravvissuti, anche di fronte a una dose mille volte superiore di germi patogeni.

Cambia allora la prospettiva che da oggi la medicina dovrà porsi, non più “come si combatte il coronavirus?”, ma “come aumentare la tolleranza ad esso?”. Ne consegue che la materia non è più soltanto la virologia, quanto l’approfondimento dei meccanismi di biologia cellulare e biochimica nell’interazione tra ospite (uomo) e patogeno (virus, batterio, ecc).

Gli anziani iper reattivi (al contrario dei pipistrelli)

A questo punto diventa chiaro anche il motivo per cui nella massa dei positivi ad ammalarsi sono stati principalmente gli anziani, non a caso i soggetti più esposti a un eccesso di reazione infiammatoria (l’estintore irrefrenabile), in altre parole “i meno tolleranti”. Per spiegarlo, Ursini ricorre a un’altra metafora, quella dell’interruttore: «La risposta al “nemico” è attivata da un interruttore on/off dell’infiammazione (l’inflammosoma) che negli anziani è poco regolabile e spesso cronicamente attivo». In pratica con l’età il meccanismo off è meno efficiente. E oltre agli anziani, in questi tragici mesi abbiamo visto che ad ammalarsi di più sono stati i soggetti con patologie metaboliche e cardiovascolari (ad esempio diabete, ipertensione, vasculopatie), e le persone obese, tutte categorie per le quali appunto la regolazione della risposta infiammatoria è funzionalmente imprecisa, come negli anziani.

Un’ulteriore prova, seppure al contrario, viene dal mondo animale. I pipistrelli sono eccellenti “portatori sani” di parecchi virus, ci convivono, li diffondono, contagiano altre specie, eppure loro non si ammalano: sono estremamente “tolleranti”. «Questi mammiferi traggono vantaggio proprio dal fatto che il loro sistema di attivazione dell’infiammazione è rallentato e poco sensibile», spiega ancora Ursini. Insomma, nel meccanismo on/off il loro “on” è lento ed è proprio questo che li salva dalla famosa tempesta infiammatoria, per altro sostenendo la loro longevità. «Il che potrebbe spiegare perché numerosi ultracentenari, pur contagiati, sono sopravvissuti egregiamente al Covid».

Come regolare l'estintore?

La ovvia domanda che si pone ora la scienza è: come controllare la risposta infiammatoria nei soggetti in cui diventa eccessiva? «Una parte della risposta potrebbe essere il suicidio controllato delle cellule che ospitano il virus», spiegano i tre studiosi dell’università di Padova, «un’ipotesi basata sugli elementi di biologia che conosciamo, ma che dovrà essere validata a livello clinico». In parole semplici: le nostre cellule riconoscono il coronavirus e per combatterlo attivano l’infiammazione. È in questa fase che il suicidio controllato della cellula con tutto il suo carico virale, con conseguente spegnimento dell’infiammazione. In questo modo si potrebbe ambire a riprodurre, in tutte le persone, quel perfetto sistema di attacco al virus senza danni collaterali, che oggi appartiene solo ai tolleranti.

La vera medicina? Lo stile di vita

Ma c’è qualcosa che possiamo già fare tutti noi, giorno dopo giorno, per favorire il raggiungimento di questa condizione, fondamentale come abbiamo visto per prevenire anche molte malattie cardiovascolari, degenerative e persino tumorali. «Studi scientifici da tempo convergono sul fatto che un corretto stile di vita possa portare un contributo determinante – spiega Ursini – e questo dipende in gran parte dall’alimentazione. In pratica ciò che mangiamo e come viviamo, lo “healthy life style”, ha una forte influenza sulla nostra capacità di controllo dell’infiammazione». Un numero consistente di studi indica chiaramente il rapporto tra una alimentazione non corretta e un aumento dell’infiammazione di base, concausa delle più frequenti patologie del nostro tempo, Covid compreso. «Ridurre gli eccessi calorici, assumere vegetali notoriamente attivi come regolatori dell’infiammazione e fare attività fisica è quindi un probabile efficiente strumento di prevenzione del Covid, come delle principali malattie odierne», sottolinea Ursini, ricordando che ad esempio «le persone obese che hanno contratto il coronavirus hanno avuto il 113% in più di probabilità di essere ospedalizzate, il 74% in più di essere ricoverate in terapia intensiva, il 48% in più di morire».

E intanto occhio alle norme

Di fronte a tanta complessità, è chiaro perché ancora oggi il Sars-Cov-2 resti per lo più uno sconosciuto, a dispetto delle certezze ammannite da dibattiti televisivi e “virologi” improvvisati. Alle notizie senza fondamento poi sbugiardate dall’evidenza tragica dei fatti («gli asintomatici non sono mai contagiosi» o «lo sono sempre», «il virus non uccide più», «il virus è funzionalmente mutato» ecc), fin dall’inizio Crisanti ha opposto un più socratico "so di non sapere”, e anche oggi, con la pandemia in crescita esponenziale nel mondo, ricorda che «se l’Italia è messa meglio rispetto alle altre nazioni è grazie alle misure di contenimento messe in atto i mesi scorsi, che vanno assolutamente conservate: a tutt’oggi per contrastare la pandemia c’è soltanto il rispetto rigoroso di norme che non possono essere oggetto di valutazioni opinabili», insiste Crisanti. Mascherine, disinfezione delle mani, distanziamento, tracciamento e tamponi sono l’unica efficace risposta, ad oggi, in attesa che i risultati della ricerca ci insegnino sempre meglio come “convivere con il virus”: espressione che in una prospettiva scientifica non significa minimizzare, come in certa vulgata da talk show, ma diventare tutti "tolleranti".

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