domenica 15 luglio 2018
Sono in aumento i giovani stranieri sottopagati e costretti a vivere in situazioni di totale degrado: il fenomeno dilaga anche nell’estate 2018 e non esistono più zone franche
La piaga dei caporali anche nel profondo Nord dal Piemonte all’Emilia
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Inchieste e procedimenti penali contro i caporali d’Italia sono in crescita, anche se denunciare resta difficile. Il fenomeno dello sfruttamento dilaga ovunque e non esistono più zone franche, come dimostrano le storie che raccontiamo in questa pagina. È il vero risultato ottenuto con la legge 199, che permette di punire sia lo sfruttatore che il datore di lavoro. Eppure, con l’avvio della nuova legislatura, neppure l’applicazione puntuale della legge sembra sufficiente per convincere il governo a mantenere il testo in vigore senza modifiche. «Non è la legge del caporalato che risolve il problema del caporalato. Ci sono leggi che non funzionano, non si applicano o non si fanno funzionare» ha detto il vicepremier Luigi Di Maio, facendo seguito a quanto già detto dal ministro della Lega, Gian Marco Centinaio, e annunciando l’apertura di un tavolo interministeriale. In attesa di capire cosa cambierà, il fenomeno del caporalato nell’estate 2018 si diffonde a macchia d’olio. Non solo al Sud, ma in tutto il Paese.

PIEMONTE

Dai mirtilli ai kiwi: sei mesi alla ricerca di un contratto vero

Forse è soltanto un po’ più sconosciuta, ma la crudeltà del caporalato piemontese non è affatto meno brutale rispetto ad altre zone del Paese e utilizza esattamente gli stessi sistemi, basati sulla violenza, sulla minaccia e sull’omertà. Nel più “profondo nord Italia” non sono pochi i casi scoperti dalle Forze dell’Ordine negli ultimi anni, concentrati per lo più nella parte meridionale del territorio. Ogni estate, centinaia di migranti arrivano soprattutto nelle province di Alessandria, Asti e Cuneo, nel cuore agricolo della regione, per trovare un lavoro stagionale, tra gli alberi da frutto, i campi di ortaggi o i filari di vigneti. Manodopera a basso costo, spesso disponibile a turni massacranti o trattamenti inumani pur di guadagnare qualche euro in più in vista di un inverno che si preannuncia ogni anno più difficile. Sono originari dell’Africa e dell’Asia, ma arrivano da molto più vicino, magari da Torino o anche da altre zone di Italia, pronti a dormire per terra all’aperto o sotto tende improvvisate, attendendo per settimane intere di essere chiamati a lavorare, magari per un brevissimo periodo.

In una situazione del genere, con una tale abbondanza di offerta di manodopera senza troppe pretese, non è così difficile che qualcuno provi ad approfittarsene, sfruttando il più possibile i lavoratori oppure proponendosi come intermediario senza scrupoli. È il caso emerso, ad esempio, qualche settimana fa, a metà giugno, quando gli ispettori del lavoro, insieme ai carabinieri del comando provinciale di Alessandria e del reggimento “Piemonte” di Moncalieri, hanno scoperto una vera e propria banda di caporali che gestiva decine di lavoratori sfruttati nelle campagne.

A capo c’era una donna macedone di 48 anni titolare di un’agenzia di intermediazione: una sorta di cinico “centro per l’impiego” abusivo, che riceveva almeno il doppio della cifra che poi veniva consegnata ai braccianti. Il reclutamento avveniva in città, ad Alessandria, in un popoloso quartiere di periferia: alle prime ore dell’alba, i giovani, che arrivavano in massa grazie al passaparola, venivano “selezionati” per poi essere portati nelle vigne, anche in provincia di Asti e Cuneo. La paga oraria prevista era di 5 euro e i lavoratori erano costretti a comprarsi gli strumenti di lavoro, come stivali, guanti e forbici: gli stessi committenti erano più che felici di poter vendere il necessario ai ragazzi, naturalmente a prezzi esorbitanti.

Le forze dell’ordine hanno controllato una cinquantina di lavoratori (una decina di richiedenti asilo e 22 profughi) e quasi tutti sono risultati senza un regolare contratto: giovani tra i 30 e i 35 anni di diversa nazionalità, come marocchini, senegalesi, tunisini, pakistani, macedoni ma anche italiani.

E anche se non si tratta di “caporalato”, esistono comunque altre situazioni di grande difficoltà. Da anni, nella zona del Saluzzese, nella tarda primavera si riversano oltre duemila migranti per la raccolta della frutta e della verdura: la stagione inizia a giugno per i mirtilli e si conclude con i kiwi a novembre. Per circa sei mesi, quindi, attendono un contratto (regolare) stagionale che, però, a volte non è affatto “stagionale”, ma legato a periodi molto più brevi, magari soltanto di qualche giorno: per tutto il resto del tempo, attendono di essere chiamati. E così, anche il Pas (Prima accoglienza stagionali), il dormitorio allestito quest’anno da Comune e Regione all’interno dell’ex caserma Filippi, non basta: i 368 posti sono tutti occupati. Molti altri, già contrattualizzati, si sono organizzati per proprio conto e il sistema di accoglienza diffusa (anche di Coldiretti) arriva ad ospitare un altro centinaio di persone: circa duecento migranti, però, restano all’aperto, fuori da tutto, sotto dei teli di plastica, assistiti dalla Caritas. Ad aspettare che qualcosa accada.

Danilo Poggio


EMILIA ROMAGNA

Le troppe aree di “lavoro grigio” da far emergere

Prima il Processo Aemilia, poi le denunce di caporalato: anche l’Emilia Romagna, terra felix, si è trovata inaspettatamente a fare i conti «con la criminalità organizzata e il caporalato, che sono temi spesso collegati», racconta Daniele Borghi, referente regionale di Libera, che a novembre organizzerà un convegno sull’argomento.

È stata la Uil a raccogliere, qualche mese fa, la denuncia di Mohamed e Aziz, due immigrati marocchini. Da tempo non vengono pagati e, per questo, si rivolgono al sindacato, che capisce subito che, alle spalle, può esserci una storia di caporalato. «Non è stato facile convincere i ragazzi a dirci per quale cooperativa lavorassero», racconta Alessandro Scarponi, segretario territoriale Uila di Cesena. Avevano paura: «Erano tutti marocchini e la cosa ci aveva messo in allarme, ma la cooperativa appariva in regola».
Invece Mohamed e Aziz stanno aprendo inconsapevolmente, con la loro testimonianza, il coperchio di un pozzo senza fondo: «Siamo stati arruolati da nostri connazionali, per cui è stato più facile, per noi, fidarci», raccontano. «Ci era stato promesso un lavoro regolare. La mansione che dovevamo svolgere, di notte, era prendere i polli degli allevamenti, metterli nelle stie che poi sarebbero state portate al macello», ricordano.

Dopo i primi due mesi di paga pressoché regolare, «in cui ci venivano dati dai 3 ai 4 euro l’ora, ma ci dicevano che era un acconto», la cooperativa sospende i pagamenti. «Impossibile contattarli, perché cambiavano continuamente i cellulari», sottolineano i due giovani africani. Dopo la coraggiosa denuncia di Mohamed e Aziz la Uila, con l’aiuto delle Forze dell’ordine, scopre che «quello che sembrava un caso di caporalato singolo, in realtà era il tassello di una vera e propria organizzazione», racconta Scarponi. «La cooperativa mandava i suoi caporali in piazza, per reclutare lavoratori da inviare, poi, oltre che negli allevamenti avicoli, nelle aziende vitivinicole o agricole per raccogliere frutta e verdura». Vittime predestinate i connazionali marocchini, «ma anche migranti irregolari di altre nazionalità».

Il sottobosco dell’immigrazione clandestina è facile terreno di caccia per i caporali: «Da noi il cosiddetto “lavoro grigio” non manca», racconta Paolo Tosti, segretario Fai-Cisl dell’Area metropolitana bolognese. Questo rende possibile che, in esso, si nascondano episodi di caporalato, non ancora emersi: «Non è facile, per un immigrato senza documenti, denunciare», spiega Tosti. «Nell’ultimo decennio le campagne bolognesi hanno registrato un aumento costante delle giornate di lavoro agricolo complessivo dichiarate. Può significare che, in tempo di crisi, l’agricoltura regge, ma anche che il lavoro di sensibilizzazione dei sindacati e i controlli hanno prodotto effetti», prosegue.

Le aziende agricole, in Emilia Romagna, sono per lo più di piccole dimensioni, a gestione familiare: «Questa caratteristica contribuisce ad arginare il fenomeno», osserva Coldiretti. Della stessa idea anche il segretario generale della Cisl metropolitana, Danilo Francesconi e il suo omologo della Uil, Giuliano Zignani: «Il territorio bolognese è sensibile al tema, il sindacato è attivo e ben radicato, da sempre: vigiliamo con attenzione», dice Francesconi. «La Uil ha sottoposto il problema alla Regione Emilia Romagna, per trovare nuove soluzioni», spiega Zignani: «L’illegalità che il caporalato genera non ha solo evidenti costi economici, ma anche e soprattutto sociali, perché rasenta forme di sfruttamento della persona, calpestandone i diritti».

Chiara Pazzaglia


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