sabato 25 settembre 2021
Tra i migranti che parteciperanno all’Angelus del Papa anche le maglie rosse del progetto “Apri” di Caritas. Ecco le storie di chi nell’anno della pandemia ha costruito percorsi di integrazione
Alcune delle 350 famiglie che hanno aderito al progetto di Caritas “Apri” accogliendo rifugiati e richiedenti asilo nella loro vita

Alcune delle 350 famiglie che hanno aderito al progetto di Caritas “Apri” accogliendo rifugiati e richiedenti asilo nella loro vita

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In maglietta rossa dal Papa all’Angelus per testimoniare la buona integrazione dei rifugiati. La maglia è quella del progetto “Apri” della Caritas italiana, acronimo che richiama i quattro verbi del Papa riferiti ai migranti (accogliere, proteggere, promuovere, integrare) pronunciati i nel gennaio 2018 per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato.

Questa domenica mattina, proprio in occasione della Giornata, una delegazione delle famiglie tutor e delle comunità parrocchiali coinvolti nel progetto marceranno in rosso da Castel Sant’Angelo a piazza San Pietro. La marcia dell’accoglienza, organizzata dall’organismo pastorale della Cei con la collaborazione del Dicastero per lo Sviluppo Umano Integrale, metterà a confronto le realtà coinvolte nel progetto che è la prosecuzione di “Protetto. Rifugiato a casa mia”. «Si tratta – spiega la coordinatrice Luciana Forlino – di una iniziativa nazionale avviata in piena pandemia, quando diverse Caritas diocesane segnalarono che dopo i decreti sicurezza di Salvini molti rifugiati rischiavano di uscire dalle comunità e ritrovarsi in mezzo alla strada».

Consiste in forme di accoglienza, anche se non in casa, per sostenere l’orientamento, finanziare gli studi, la partecipazioni a corsi di lingua o formazione professionale. Finora sono 623 le persone accolte, di cui 186 minori, le diocesi coinvolte circa 70, 100 le parrocchie, oltre 60 gli operatori e 350 le famiglie tutor volontarie. «Mettiamo al centro la comunità – aggiunge Oliviero Forti, responsabile dell’ufficio immigrazione della Caritas italiana –, intesa come base vitale e sistema di relazioni anche informali in grado di sostenere il processo di inclusione sociale e lavorativa delle persone. “Apri” ci ha dimostrato l’importanza della rete nell’accoglienza, crediamo che sia questo il futuro su cui costruire l’integrazione».

Tre famiglie tutor e altrettante famiglie di rifugiati sono lo specchio di storie incrociatesi nell’Italia sconvolta dal Covid. Il progetto “Apri” della Caritas ha rafforzato rapporti di supporto iniziati in precedenza, ha aiutato a non lasciare indietro nessuno facilitando l’integrazione di uomini, donne e bambini rifugiati.

“Apri” è semplice, nasce da un’emergenza generata sui territori da un decreto che prometteva sicurezza nel nome e invece generava insicurezza mettendo in mezzo alla strada rifugiati e richiedenti asilo che spesso, per mancanza di risorse e di conoscenze linguistiche o professionali, non erano ancora in grado di sostenersi autonomamente e di integrarsi. Grazie alla Caritas, alle diocesi e alle famiglie volontarie più di 600 persone hanno oggi una casa, lavorano e hanno imboccato il sentiero che porta alla integrazione. Come a Sant’Agata dei Goti, provincia di Benevento, piccolo centro dell’entroterra campano che si sta spopolando. Qui Simona e e Giacomo Barone nell’ottobre 2020 hanno accolto la proposta della Caritas diocesana di Cerreto, Sant’Agata e Telese di aiutare Raisul, un ragazzo 23 enne del Bangladesh con “Apri”, un ragazzo che a 12 anni si è lasciato alle spalle la miseria e ci ha messo sette anni a venire in Italia. Ha vissuto in India, In Grecia. Poi è stato respinto e ha comunque raggiunto l’Italia ancora da minore non accompagnato. Lui viveva già in paese e lavorava. «Lo conoscevamo di vista – spiega Simona – e all’inizio eravamo titubanti per il Covid perché avevamo un figlio di sette anni in Dad. Poi ci siamo detti che ci avrebbe fatto piacere». Com’è andata? «Che Raisul è entrato a pieno titolo nelle nostre vite, lo aiutiamo e lo consigliamo quando ce lo chiede. È nata una amicizia profonda. Lui condivide un appartamento con un altro ragazzo egiziano. Gli abbiamo fatto da tramite con la Caritas. Ad esempio tramite “Apri” siamo riusciti a fargli prendere la patente e acquistare un portatile per studiare italiano e corsi online per entrare nel mondo della ristorazione professionale». Raisul sogna di diventare chef un giorno. «È un gran lavoratore, è riuscito a trovare lavoro. Doveva solo orientarsi in una società complessa. Poi sceglierà cosa fare della sua vita».

A Senigallia Simona Diambra, il marito e sua figlia Sofia, primo anno di Scienze umane, sono in prima linea accanto a Sara, 30 enne nigeriana, madre sola di Stephany, cinque anni. Mamma e figlia vivono in un centro di accoglienza, dove Simona le ha incontrate 4 anni fa grazie a una chat su WhatsApp di mamme della parrocchia che chiedeva aiuto per una mamma che doveva lavorare e non sapeva come fare con la figliai piccolissima. «Sua figlia – racconta Simona Diambra –, nata in Italia aveva otto mesi. Sara si è sempre data molto da fare. Ha preso la licenza media e lavorava. Con “Apri” abbiamo potuto aiutarla a iscriversi a un corso per operatori sociosanitari mentre lavora. Noi le teniamo Stephany, andiamo a prenderla a scuola la aiutiamo a fare i compiti. Siamo riusciti anche a iscriverla a un corso di danza». All’inizio Sara era diffidente, poi è nata la fiducia e una grande amicizia con i Diambra: «Con “Apri”, iniziato nel 2020, che ci è stato proposto dalla Caritas in parrocchia, il rapporto si è consolidato. D’estate la piccola è stata in un centro estivo e poi la comunità parrocchiale ci ha aiutato ad accoglierle. Ad esempio ci ha dato una grossa mano a trovarle lavoro negli alberghi. Oggi sono entrate in famiglia».

Dall’Afghanistan a Gemona, Enayat, 33 ani, è riuscito a farcela a portare in Italia la sua famiglia grazie alla rete che fa capo a Gianni Vidoni, professore di religione in un liceo e coordinatore della Caritas di zona. «Nel gennaio 2020 per nove mesi – spiega Vidoni – abbiamo seguito la famiglia di profughi afghani il cui padre era già arrivato qui 5 anni fa. Era un militare delle forze speciali, una volta congedatosi è tornata a casa, vicino a Jalalabad. Qui i talebani gli hanno preso i soldi e bruciato l’auto minacciandolo di morte. Si era sposato da poco, è dovuto fuggire. Un mese dopo sua moglie ha partorito la prima figlia». Enayat fugge in Turchia dove pensa di stabilirsi, invece viene arrestato. Riesce ad uscire a raggiungere l’Austria, che con il governo sovranista non riconosceva più l’asilo agli afghani e infine arriva in Friuli». A Gemona resta tre anni in un centro per rifugiati dove conosce Vidoni, volontario Caritas. La struttura è stata chiusa due anni e mezzo fa, ma ha lo status di rifugiato e con l’aiuto dei volontari trova un lavoro e una piccola casa. Nel gennaio 2020 reisce a d andare in Pakistan a prendere moglie e figlia. «“Apri” è partita con il lockdown. Nel frattempo è arrivata una seconda figlia e il progetto è servito per sostenere la moglie, molto più giovane e analfabeta, in gravidanza, e poi a insegnarle l’italiano. Abbiamo dato una mano a superare alcuni ostacoli burocratici e abbiamo acquistato un computer. La figlia maggiore ha potuto frequentare un corso estivo che non si potevano permettere e così la bambina ha avuto contatti con i suoi coetanei. Ora frequenta le elementari e quella esperienza l’ha aiutata a inserirsi». Tre storie di persone che grazie alla comunità messa in rete dal progetto sono state aiutate soprattutto a tornare padrone del proprio destino.


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