mercoledì 13 gennaio 2021
La bozza trapelata ha scatenato la polemica sull'eventuale scelta delle persone da curare in base alle risorse limitate. Intervista a Mariapia Garavaglia, del Comitato nazionale per la Bioetica
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Un medico - Ansa

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A Roma le istituzioni sanitarie non l’hanno presa bene, e si può capire: una fuga di notizie ha squadernato il nuovo «Piano pandemico nazionale 2021-2023» prima delle necessarie messe a punto sul testo destinato a rimpiazzare quello in vigore, datato 2006, con un nuovo quadro di riferimento unitario per le azioni «contro i virus influenzali a potenziale pandemico».

Le linee guida, ancora in bozze, sono uscite come fossero definitive causando polemiche in particolare sulla parte delle scelte etiche, tema sul quale Istituto superiore di sanità e Comitato nazionale per la bioetica si erano espressi nei mesi scorsi con testi inequivoci.

Nel Piano ora si legge, tra l’altro, che «quando la scarsità rende le risorse insufficienti rispetto alle necessità, i principi di etica possono consentire di allocare risorse scarse in modo da fornire trattamenti necessari preferenzialmente a quei pazienti che hanno maggiori possibilità di trarne beneficio». Parole che sollevano interrogativi.

Poche frasi estrapolate dalla bozza di un documento ancora in fieri, poca roba, e neppure particolarmente innovativa, ma con un passaggio sugli interrogativi etici in tempo di emergenza sanitaria sufficienti a farla inquietare.

«Mi chiedo che bisogno ci sia di mettere in giro altra ansia tra i cittadini, non basta quella che c’è già?». Mariapia Garavaglia cerca di pesare le parole, ma alcune espressioni – certo generiche e ancora da calibrare – del futuro Piano pandemico nazionale 2021-2023 trapelate sui media non vuole lasciarle passare senza dire il suo parere. Quantomai autorevole, essendo lei ex sottosegretario e poi ministro della Salute tra il 1988 e il 1994, commissario e in seguito presidente della Croce Rossa italiana (1995-2002), e oggi vicepresidente del Comitato nazionale per la Bioetica. «Le cure per tutti sono un diritto costituzionale – dice – e un dovere deontologico».

Cosa non la convince della bozza che circola?
Quando leggo che «durante situazioni di crisi, i valori etici fondamentali consentono alcune azioni che non sarebbero accettabili in circostanze ordinarie». È vero che poi si aggiunge che «ciò non significa, però, modificare i principi di riferimento» ma precisando che occorre «bilanciarli in modo diverso». Mi chiedo: vuol dire che ci si dovrebbe arrendere alla situazione eccezionale che si crea in una pandemia, rinunciando a punti fermi della cura delle persone? Pensiamo al signore di 103 anni che insieme al vaccino ha ricevuto ingiurie sui social da chi gli diceva che essendo vecchio doveva lasciare la sua dose ad altri. Vogliamo accettare che la sua vita possa essere sacrificata perché "molto anziano"? Credo che in questi documenti, pur generalissimi, vada sempre ricordato che soprattutto nelle situazioni di emergenza valgono i criteri clinici di proporzionalità e appropriatezza: nessuna terapia che prolunghi una vita a forza sconfinando nell’accanimento, ma applicazione di tutto ciò che serve per ottenere il beneficio del paziente, che nel caso del centenario possono essere due anni di vita in condizioni di salute soddisfacenti. Mai dare l’impressione che qualcuno potrebbe essere lasciato da parte. Non esistono selezioni in base a età o efficienza, ma solo lo sguardo del medico che valuta la condizione complessiva della persona e fa quello che occorre al suo caso: e quando non c’è nulla da fare pratica la terapia palliativa.

Ma c’è il limite delle risorse che possono essere insufficienti per tutti. Come lo si supera?
Attorno a un paziente si esprime un giudizio clinico – se possibile un triage con più competenze coinvolte – su qual è per lui l’atto benefico, quello cioè che gli ottiene un risultato positivo: la sopravvivenza, un miglioramento, la guarigione. Nessun medico scarta un paziente "perché non c’è posto" provocandone la morte prematura ma applica a ciascun caso la cura proporzionale alla sua situazione valutando rispetto alle condizioni del paziente la beneficialità del trattamento, legata all’evidenza di ciò che il medico fa. Questo è il messaggio che va dato in una situazione di allarme sociale come questa. Diversamente si rischia di far credere che ci sarà chi viene abbandonato perché "non ce n’è per tutti". Che poi non è vero, perché i nostri medici non lo fanno mai.

Ma è vero che le risorse sono insufficienti?
Qui entriamo nella pantomima politica del Mes, un fondo europeo finalizzato agli investimenti nella sanità. Stiamo a discutere di due casi tra cui scegliere per un solo letto, e non prendiamo i soldi a disposizione per averne due? Se il governo accettasse una buona volta questi fondi potrebbe mettere mano a una riorganizzazione del sistema sanitario che diventerebbe davvero un modello per il mondo. C’è una rete ospedaliera da ristrutturare a fondo, con strutture antiquate da radere al suolo e ricostruire pensando a come dovranno essere tra 25 anni, personale sanitario da incrementare, formare e retribuire adeguatamente, la medicina territoriale da potenziare con una presenza molto superiore di medici di famiglia che dovrebbero diventare dipendenti della Sanità pubblica ed essere disponibili sempre per i cittadini... Il ministro Speranza sta lavorando molto e con la dovuta discrezione, ma qui si procede mettendo pezze un decreto dopo l’altro e discutendo ancora se i soldi per la salute dei cittadini vanno presi o no. La lezione della seconda ondata è sotto gli occhi di tutti. Cosa aspettiamo?


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