venerdì 3 novembre 2017
Laura Frigenti dell'Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics): "i giovani africani desiderano vivere meglio. Partono per avere altre opportunità". Si apre il G7 della cooperazione
«Per fermare l'esodo dall'Africa, bisogna offrire loro una vita migliore»
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Pance piene? Non basterebbe. Occorre anche riempire teste e cuori, altrimenti i giovani africani continueranno a partire, in cerca di opportunità. Come farebbero al posto loro tutti i giovani del mondo, oggi che il mondo gli viene servito sul piatto dei media. Soprattutto del web, il grande frullatore dei desideri. Laura Frigenti, direttrice dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics), l’Africa la conosce bene, avendoci lavorato per quasi 30 anni. E sa perfettamente che chi fa da sé non combina nulla ma, se si collabora, tutto o quasi è possibile. Con questo spirito l’Italia organizza oggi a Firenze 'Dalla visione all’azione: come lavorare meglio insieme', a cui partecipano le Agenzie per la cooperazione allo sviluppo dei Paesi del G7, prima iniziativa del genere anche se 'informalmente vincolata', ossia non facente parte delle riunioni formali del G7. Stamattina, dalle 10, alla sede Aics di Firenze (via Cocchi 4), oltre alla Fri- genti intervengono Daniel Runde e Gilbert Houngbo, rispettivamente direttore del progetto Prosperità e sviluppo del Centro studi strategici e internazionali e presidente del Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo. Nel pomeriggio, dalle 15, alla Sala d’Arme di Palazzo Vecchio, ospiti del sindaco Dario Nardella, i rappresentanti del settore pubblico e privato, tra cui alcuni imprenditori africani, discuteranno su 'Obiettivo Fame Zero'. «Da parte di tutti gli invitati – spiega Laura Frigenti – ho notato interesse e desiderio di essere sempre più coinvolti».

Quale contributo porterà l’Italia a questo 'G7 della cooperazione'? In particolare, proporremo iniziative pilota congiunte in due Paesi dell’Africa subsahariana. La sicurezza alimentare è un tema trasversale, che abbraccia il lavoro, l’ambiente, i flussi migratori, la pace. E quindi va affrontato con iniziative comuni e trasversali.

L’'Obiettivo Fame Zero' è realistico o appartiene ancora al terreno del sogno, dell’utopia? È soprattutto un imperativo etico, categorico, per tutta l’umanità. E va assunto a tutto raggio, con uno sguardo ampio e attento. Entrano in gioco gli indicatori demografici, l’abuso delle risorse naturali, i conflitti locali. E, aggiungo, il cambiamento culturale in atto nelle nuove generazioni africane.

Stanno cambiando in quale senso? Le generazioni precedenti accettavano il proprio destino senza reagire. La nuova generazione di giovani africani è decisamente meno fatalista. I mass-media e il web mostrano il divario con gli altri giovani del mondo. E li convincono del diritto ad avere pure loro opportunità migliori.

Dunque non basta riempir loro la pancia affinché si sentano sazi? No. Ma se abbandonano in massa i loro villaggi, l’Africa si impoverisce in modo drammatico. Occorre far tornare attraente la vita nelle aree rurali.

Bella sfida culturale. Come fare? Occorre offrire non soltanto una crescita agricola e un aumento dei redditi, ma anche far salire la qualità della vita, ossia i servizi: istruzione, sanità, comunicazioni. Opportunità di crescita in senso lato. Perché no, non se ne vanno solo per fame. Desiderano vivere meglio, partono per avere altre opportunità.

Che cosa può dire dell’impegno finanziario italiano per la cooperazione internazionale? Non dico niente per scaramanzia. Ma dal 2015 in poi è sempre cresciuto e per il 2018 non ho segnali negativi, anzi.

Per frenare le partenze, i fondi sono sufficienti? Il 75 per cento dei fondi per lo sviluppo finiscono già oggi in Africa, in particolare nel Magreb. Il nostro compito è duplice: arginare le emergenze e creare opportunità migliori.

In particolare, come va la cooperazione nell’area forse più critica, la Libia? Lavoriamo in stretta collaborazione con tutti i donatori, Banca Mondiale e Onu, per la ricostruzione. Di recente, presso la nostra ambasciata a Tripoli, c’è una presenza tecnica. Da un lato è necessario coinvolgere le organizzazioni della società civile italiana, dall’altro vanno rafforzate le municipalità in Libia, per un rapido ripristino dei servizi alla popolazione, dalla scuola alla sanità a tutto ciò che serve per un ritorno alla normalità.

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