sabato 4 maggio 2013
​Clima sempre più teso in vista del referendum sulle paritarie. Il sindaco Merola e il Pd schierati con Pdl e Lega per difendere l’attuale sistema integrato che garantisce la libertà educativa. Se prevalesse invece la linea di coloro che intendono cancellare i contributi (0,8% del bilancio comunale), l’amministrazione pubblica potrebbe garantire con la stessa cifra soltanto 145 posti.
LA SCHEDA Dalla Finlandia alla Spagna, così le scuole paritarie
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Mancano solo tre settimane al 26 maggio, giorno in cui i cittadini bolognesi saranno chiamati a votare sui fondi comunali alle scuole dell’infanzia paritarie. L’atmosfera in città è bollente per un referendum consultivo che sempre di più sembra voler uscire dai confini cittadini per prendere d’assalto la legge Berlinguer del 2000, che da tredici anni garantisce il sistema pubblico integrato. In città l’amministrazione comunale è arrivata ai ferri corti con il comitato «Articolo 33», i promotori del referendum, agguerriti sostenitori dell’abolizione dei fondi. Il sindaco di Bologna Virginio Merola, insieme al Partito Democratico, continua il suo tour cittadino a promozione del fronte del «B» (che difende i finanziamenti alle scuole paritarie). A dare manforte alla giunta Merola, oltre al Pdl che comincerà la campagna elettorale per il «B», è scesa in campo anche la Lega che si è schierata per difendere l’attuale sistema integrato: «È una battaglia ideologica– ha detto il leader del Carroccio bolognese, Manes Bernardini –. Il referendum lo farei pagare a chi l’ha promosso». A fianco dei referendari, invece, che voteranno «A», c’è l’ala di Sel e del Movimento Cinque Stelle. Una battaglia tutta politica che ben poco ha a che vedere con il futuro scolastico dei bambini di Bologna e tanto meno con le liste d’attesa per le scuole d’infanzia comunali. In gioco c’è anche una questione che invece è ben circoscritta all’interno delle mura cittadine: il passaggio dei servizi scolastici del Comune all’Asp unica, il colosso voluto dall’attuale giunta che unificherà le aziende Irides, Poveri vergognosi e Giovanni XXIII. Una sorta di privatizzazione delle scuole materne con il rischio dell’instabilità dei contratti del personale scolastico, che ha portato un nutrito gruppo di maestre a promuovere il referendum. Insomma «siamo stati trascinati controvoglia in una polemica che inevitabilmente assume i contorni di uno scontro ideologico. La realtà è invece molto più semplice, più modesta», ha ricordato il numero due della Chiesa di Bologna, monsignor Giovanni Silvagni che ha invitato la comunità e i suoi rappresentanti ad andare a votare «B». «Distruggere un lavoro paziente di cucitura di rapporti che ha impegnato intere generazioni è molto facile – ha continuato – soprattutto quando si fa leva anche sull’attuale disagio sociale e sull’indignazione generale verso le istituzioni». L’«Articolo 33» e i suoi sostenitori non si arrendono: «Non è vero che bisogna cancellare la scuola pubblica perché c’è il patto di stabilità – ha detto Maurizio Landini, segretario generale della Fiom, nel corso dell’ultimo incontro dei referendari dove il capofila Stefano Rodotà ha dato forfait –. Ciò che fa la differenza in chi amministra è avere il coraggio di scelte coraggiose». I numeri d’altronde parlano chiaro e di quelli si avvalgono i firmatari del «Manifesto del sistema pubblico integrato» capeggiati dall’economista Stefano Zamagni: «Il Comune di Bologna investe 127 milioni di euro per la scuola pubblica, 1/4 del suo bilancio – commenta –. Di questi fondi, 1.055.500 di euro (pari al 0,8%) sono destinati alle scuole paritarie convenzionate che accolgono oggi 1.736 bambini». Bimbi che senza quel contributo rimarrebbero a casa perché il Comune con la stessa cifra potrebbe garantire appena 145 posti, visto che il costo pro capite nelle scuole comunali è di 6.900 euro all’anno. Non è la prima volta che il sistema integrato bolognese finisce nel mirino: già tre ricorsi sono stati intentati negli ultimi vent’anni per sancire l’«incostituzionalità delle norme regionali e dei contributi dati in convenzione», ma tutte le volte sono stati respinti dalla Corte Costituzionale.
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