sabato 25 luglio 2020
Triplicate in due mesi le richieste di cibo e pacchi alimentari per l’assenza di lavoro. Comune, Chiesa e terzo settore insieme: 11 gli snodi per lo stoccaggio di cibo, «ma ancora non basta»
Uno dei centri di smista-mento di generi alimentari della rete “Torino solidale”, nata su iniziativa di Comune e terzo settore

Uno dei centri di smista-mento di generi alimentari della rete “Torino solidale”, nata su iniziativa di Comune e terzo settore - Collaboratori

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Il colpo d’occhio è impressionante: le file ordinate, come si conviene ad una città nota per il suo rigore. Sono dappertutto: per mangiare, per dormire, per contare su un ascolto non distratto. E poi fuori dai negozi, al Banco dei pegni. La sferza di Covid-19 ha colpito Torino duramente. Lo fa ancora, anche se l’emergenza sanitaria sembra finita. La chiusura delle fabbriche e il serrarsi in casa hanno fermato la pandemia, ma hanno infiammato la povertà. Chi non lavora e non ha risorse, semplicemente non mangia. E qui sono in molti. Così come – per fortuna – sono in molti a darsi da fare per contrastare tutto questo. La città dei santi sociali, del lavoro, della solidarietà, s’è messa in moto da subito.

Basta poco per capire la crisi. Nello scorso marzo i buoni spesa statali per circa 4 milioni e 252mila euro, messi a disposizione attraverso il Comune, sono andati esauriti in poche ore e hanno aiutato 11.705 famiglie. Nuovi poveri, spesso. Circa metà delle famiglie aiutate hanno “componenti in età produttiva”.

L’Ires (che si occupa delle ricerche economiche e sociali in Piemonte), certifica che oltre la metà dei nuclei familiari con reddito e pensione di cittadinanza si trova proprio nel Torinese (37.367 su 61.762). E indica un aumento della fascia di popolazione in crisi. A provarlo sono anche le domande del cosiddetto Rem (Reddito di Emergenza). Uno degli indicatori più significativi della crisi (anche in prospettiva), è il ricorso alla cassa integrazione, con il Piemonte tra le regioni ai primi posti in Italia. Solo quella in deroga tocca già 92mila persone e 22,6 milioni di ore di lavoro. L’intreccio perverso tra crisi economica, disagio sociale e povertà trova proprio qui di che alimentarsi. Ma c’è anche il bene.

È nato per esempio il progetto "Torino Solidale", iniziativa dell’amministrazione comunale con l’Associazione Damamar (che fa capo ai Padri Giuseppini del Murialdo), il Banco Alimentare del Piemonte, il Banco delle Opere di Carità e la rete del privato sociale del territorio. Attraverso questo canale, da marzo, agendo su più fronti, sono state sostenute circa 15mila famiglie. Merito di una rete capillare fatta di 11 “snodi” che garantiscono il rifornimento e lo stoccaggio di beni alimentari e di prima necessità e la distribuzione di pacchi alimentari.

A sostenere tutto, fondi comunali per oltre mezzo milione ma anche quelli di privati. Il progetto non si è concluso, anzi. In queste settimane si sta effettuando la consegna di altri panieri mensili a circa 10.000 famiglie; si continuerà anche in autunno. Nella seconda fase dell’emergenza, poi, altri attori sono entrati in scena. La Fondazione Cottino ha donato beni per 500.000 euro; la Nova Coop ha curato la preparazione e l’immagazzinamento 13.700 pacchi alimentari. Anche le fondazioni bancarie hanno fatto la loro parte. La Fondazione Crt, per esempio, ha stanziato circa 1,2 milioni. La sindaca Chiara Appendino spiega: «Ogni risorsa è preziosa per rispondere alle richieste e siamo orgogliosi di constatare come la città abbia ancora una volta risposto».

Ma mangiare per molti non basta. A Torino, ci sono circa 2.500 persone senza fissa dimora: gente che spesso si vede accoccolata sotto i portici della città, bersagli facili per Covid-19. Così, se nella fase più dura i posti letto sono stati aumentati, adesso è stato deciso di mantenerne almeno 40. Un’operazione resa possibile dagli "Asili Notturni Umberto I" nei quali lavorano 300 volontari (un terzo dei quali medici e paramedici). Poi ci sono le iniziative particolari. Come quella del Convento di Sant’Antonio da Padova il cui padre superiore, Fra’ Mauro Battaglino, dice: «È cambiata la tipologia di persone, adesso ci sono più italiani. I poveri che vivono in strada ci sono sempre, ma ci sono anche quelli che hanno perso il lavoro». Solo il convento ogni giorno fornisce 400 pasti e aiuta circa 230 famiglie con almeno due pacchi-spesa al mese.

Certo, a Torino disagio sociale e povertà non sono nati con Covid-19: gli effetti della crisi del 2008 si sentivano ancora all’inizio del 2020. Ma la pandemia ha tarpato le ali alla ripresa. A spiegare la situazione è Pierluigi Dovis, direttore della Caritas diocesana. «L’impatto è stato tale – dice –, da non consentire rilevazioni statistiche precise, ma nelle nostre mense c’è stato un aumento delle presenze anche dell’80%. In marzo-aprile 2019 al Centro di ascolto diocesano "Le due tuniche" sono passate circa mille persone, quest’anno negli stessi mesi sono state oltre 3mila».

Anche Dovis, come Fra’ Mauro, nota poi il cambiamento: «C’è stata una crescita del numero di persone che non erano mai venute in un centro di ascolto: in alcuni casi si è superato il 100%». A chiedere aiuto non è solo chi lavorava in nero, ma anche i lavoratori domestici e quelli stagionali (dell’alberghiero, della cultura e dell’intrattenimento), persone quindi con una istruzione anche medio-alta. Senza dire dei piccoli commercianti, delle partite Iva.

Sempre Dovis aggiunge: "I problemi più importanti sono legati alla mancanza di liquidità. Sono stati fatti molti proclami i cui effetti però sono arrivati tardi rispetto al bisogno». Dovis punta il dito sul futuro. «In questi mesi – spiega –, ho visto grandi erogazioni per la sanità e gli alimenti. Fondi doverosi, io però ho il forte timore che in autunno vi sarà bisogno di altri interventi ma che le risorse non saranno più le stesse». Insomma, il peggio potrebbe ancora arrivare.

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