lunedì 10 agosto 2020
Cresce il fenomeno dei “ripoveri”, che erano usciti dalla spirale della fame e ora sono tornati a chiedere aiuto: tra questi soprattutto disoccupati tra i 40 e i 50 anni
Volontari in campo per aiutare i senza dimora nei caruggi di Genova.

Volontari in campo per aiutare i senza dimora nei caruggi di Genova. - Archivio Avvenire

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Dai primi di luglio è partito il viaggio di “Avvenire” nella «pandemia sociale»: l’inchiesta che racconta l’emergenza economica causata dal coronavirus. Città per città, territorio per territorio, il nostro impegno porterà ai lettori la fotografia di un’Italia piegata dal Covid-19. Famiglie in difficoltà, imprese a rischio usura, vecchi e nuovi poveri aggrappati alla solidarietà dello Stato e delle molte associazioni cattoliche in prima linea.


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La periferia della città in salita si inerpica sulle colline, almeno dalle case popolari vedi il mare. A Genova la linea che separa precarietà e povertà, nei quartieri una volta degli operai, è stata superata da migliaia di italiani e stranieri accomunati dai colpi duri della pandemia, che non ha risparmiato famiglie e anziani soli. Soprattutto le donne, spesso madri di nuclei con genitore unico o tornate a mantenere figli adulti con la pensione.

In diversi casi la povertà si è trasformata in miseria. La fame l’ha vista da vicino per la prima volta a Genova Alberto Mortara della Fondazione Auxilium, braccio operativo della Caritas, che pure gestisce servizi per homeless, richiedenti asilo e famiglie in difficoltà. «Il Comune ha aderito all’iniziativa del governo sull’emergenza alimentare e noi abbiamo dato una mano. Ha acquistato i buoni per le famiglie povere contando di avanzare 250mila euro. Ha dovuto aggiungerne 750mila. La povertà era nascosta ed è affiorata con il lockdown».

Per capire chi ha colpito saliamo fino a via Coronata 48, al negozio di Tabi, dove molte persone del quartiere proprio durante il lockdown sono venute a ritirare i pacchi viveri forniti dai volontari di Sant’Egidio. Da marzo a giugno il salone di bellezza, aperto a dicembre da una parrucchiera nata in Marocco e sbarcata bambina a Genova nel 1996, è diventato un centro di ascolto. Sono arrivate proprio le donne per prime, madri di famiglia italiane e straniere. E una parrucchiera è diventata un’assistente sociale.

A Genova, nel salone di Tabi, la parrucchiera che durante il lockdown ha distribuito viveri alle donne

A Genova, nel salone di Tabi, la parrucchiera che durante il lockdown ha distribuito viveri alle donne - Archivio Avvenire

«Erano soprattutto lavoratrici precarie – racconta Tabi, che vive con il marito e i due figli a Cornigliano, quartiere limitrofo di periferia operaia –, molte donne che sbarcavano il lunario lavando i piatti nei ristoranti o lavoravano a chiamata o in nero nel turismo e nell’edilizia. E le domestiche licenziate dalle famiglie. A marzo, quando è scattato l’isolamento, parecchie clienti hanno cominciato a chiamarmi per avere informazioni sull’apertura del negozio. Poi hanno cominciato a confidarmi che avevano problemi ad acquistare il cibo, soprattutto chi aveva figli piccoli o adolescenti». La giovane è in contatto con Sant’Egidio, suo figlio maggiore frequenta la scuola di pace a Corigliano.

Così, data la chiusura temporanea della Caritas parrocchiale per l’elevata età dei volontari, è scattata la distribuzione nel negozio proseguita fino alla riapertura dei centri di ascolto cittadini a maggio. «Una famiglia di italiani composta da padre e madre, entrambi rimasti disoccupati, e 5 figli era alla fame. Un giorno la moglie mi ha detto che le ho fatto cambiare idea sugli stranieri. E non le ho detto che la frutta e la verdura dei pacchi erano state donate dal fruttivendolo pachistano di Corigliano che durante il Ramadan sentiva suo dovere fare la carità».


Il quadro generale genovese lo dipinge Lucia Foglino, responsabile dei 34 centri di ascolto Caritas diocesani. «Chi si è rivolto a noi subito, oltre ai precari, arrotondava magri salari o l’invalidità il reddito di cittadinanza con il lavoro nero domestico. All’inizio abbiamo risposto soprattutto con buoni alimentari della diocesi da 10 euro per circa 75mila euro. Erano soprattutto stranieri, i più esposti. Oltre alle 500 persone, al 70% nuove, che hanno chiesto aiuto ai parroci per mangiare, sono arrivati altri 200 cassintegrati cui non arrivavano i soldi e che avevano finito i risparmi. Soprattutto in Valpolcevera, i quartieri già toccati dal crollo del ponte Morandi, e poi Val Bisagno, Staglieno e Marassi colpiti dal disagio sociale dalle alluvioni. Il Covid è stato il colpo di grazia. E infine il ponente cittadino, dove la povertà oscilla in base alla domanda di lavoro dei subappalti di Fincantieri. In tutto penso che dovremo aiutare 6.500 persone, almeno un terzo nuove e molti poveri usciti dalla spirale della fame, i “ripoveri”. Tra questi soprattutto i disoccupati 40-50 enni, magari con un divorzio alle spalle, che vivono con la pensione dei genitori».

Come Lucia, 34 anni, tornata a casa con la madre, situazione esemplare. Aveva un lavoro a termine da cameriera con il quale se la cavava, era indipendente. Aspetta ancora la cassa integrazione ed è sempre disoccupata perché il turismo anche nel capoluogo ligure langue e i soldi si facevano soprattutto d’estate. Quest’anno molti dovranno farne a meno e chissà come si affronterà l’inverno con un unico reddito per affitto e utenze, i 490 euro della pensione della mamma. «Ora il problema è il pagamento di utenze e affitti – conclude Foglino –, ma a settembre ci saranno da affrontare le spese scolastiche e chi non riprende a lavorare rischia di non farcela. La pandemia sociale a Genova non è finita, anzi». A Genova sono periferie anche le vie centralissime della casbah della città vecchia, quelle dove per Fabrizio De Andrè «il sole del buon Dio non dà i suoi raggi», dove i palazzi restaurati si alternano a case fatiscenti e spesso la divisione nello stesso portone è per piani. In alto famiglie ben integrate, ai primi piani alloggi sovraffollati in affitto e subaffittati a chissà chi. La divisione è netta, sopra Caricamento abitano in prevalenza i sub sahariani, dalle parti di via del Campo resiste l’immigrazione mediterranea nordafricana, marocchini e tunisini. Il confine passa in mezzo, in piazza santa Sabina 2, dove c’è la mensa di Sant’Egidio e un hub alimentare per famiglie gestito con Auxilium che in agosto rimane aperto 7 giorni su 7 grazie al contributo della diocesi per distribuire i pacchi viveri a senza dimora, badanti e colf disoccupate.


«I nuovi poveri italiani si vergognano, non si mettono in fila – afferma Maurizio Scala di Sant’Egidio – allora abbiano organizzato la distribuzione anche a domicilio con i volontari soprattutto per gli anziani. Alcuni di loro non si possono muovere e abitano in palazzi senza ascensore. C’è chi, tra i pensionati, ci ha chiesto vergognandosi di avere una fetta di carne che non si poteva permettere da mesi. Abbiamo incontrato famiglie con figli adolescenti che non hanno visto la cassa integrazione o il reddito di emergenza e che potevano offrire a ragazzi in crescita solo pastasciutta Nei giorni più difficili a Santa Sabina si sono toccati 300 accessi di famiglie disperate al giorno, italiane e straniere. Per Sergio Casali, altro santegidino, «l’aumento dei pacchi viveri in città è stato superiore al 35%, il numero di persone seguite raddoppiato. Tutte già vulnerabili per reddito e salute cui il lockdown ha dato il colpo di grazia. La buona notizia è stato l’aumento dei volontari, soprattutto tra i 30 e i 45 anni».
Qualcuno di loro, aiutato in silenzio ad arrivare a fine mese, non ha dimenticato ed è tornato qui come volontario. Per sdebitarsi con riservatezza, come usa ancora a Genova, città che aspetta con molta ansia l’autunno.

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