martedì 15 agosto 2017
A 5 mesi dallo smantellamento rinasce il ghetto di Rignano, in agro San Severo. L'area è occupata da roulotte dove vivono più di 600 migranti reclutati per raccogliere i pomodori
Il ghetto si riforma e diventa «mobile»
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A cinque mesi dalla demolizione si torna a parlare del ghetto di Rignano, località Torretta Antonacci in agro di San Severo. La baraccopoli, sorta diversi anni fa nelle campagne del foggiano per ospitare i lavoratori non comunitari durante la raccolta del pomodoro e poi rasa al suolo lo scorso marzo, si sta infatti ripopolando.

Oggi la struttura del cosiddetto “Gran ghetto” è radicalmente cambiata, le baracche malmesse, costruite con materiali di scarto come travi di legno, plastica e lamiere di ferro, hanno lasciato il posto a numerose roulotte, in cui vivono centinaia di immigrati. «In realtà il ghetto non si è mai del tutto spopolato, all'indomani dello sgombero almeno duecento persone hanno continuato ad abitarvi, oggi ce ne sono all'incirca 600, forse più – evidenzia un volontario del Progetto Presidio di Caritas Italiana –, all’interno delle roulotte vivono in quattro o cinque a volte anche in sei, le condizioni igienico sanitarie sono pessime, infatti manca l’acqua che prima arrivava puntualmente ogni giorno, trasportata dai camion cisterna. Il caldo e l’afa, che in questo periodo non danno tregua, rendono la situazione ancora più difficile».

Fino allo scorso anno il “Gran ghetto” era popolato da circa 2000 braccianti provenienti per la maggior parte dall’Africa subsahariana, immigrati arrivati in Puglia in vista della stagione del pomodoro. In seguito alla demolizione della baraccopoli, alcuni di loro si sono spostati sulla cosiddetta “Ex pista”, un’ area dove un tempo atterravano gli aerei militari, situata a ridosso del Cara (Centro di Accoglienza per i Richiedenti Asilo) di Borgo Mezzanone, poco distante da Foggia. Un’altra parte è stata ospitata presso due centri di accoglienza a San Severo; Casa Sankara e L’Arena, le strutture hanno accolto rispettivamente 180 e 140 immigrati.

Le condizioni del lavoro nei campi continuano ad essere difficili, i braccianti sono pagati a seconda del numero di cassoni che riescono a rimpire, un cassone può contenere circa 300 kg di pomodori ». Le paghe sono variabili, da 3 a 5 euro a seconda che il terreno sia buono, ossia se non vi siano erbacce da estirpare o pietre da rimuovere, o impervio. «Si può lavorare anche fino a dieci ore al giorno – specifica Concetta Notarangelo, altra operatrice del Progetto Presidio –, noi cerchiamo di fornire un orientamento legale e lavorativo, purtroppo la domanda e l’offerta di lavoro non riescono ad incrociarsi, infatti molti immigrati sono stati iscritti negli uffici di collocamento, ma quasi nessuno è stato chiamato. Il sistema non funziona».

I braccianti non comunitari arrivano anche da altre parti d’Italia, sia dal Sud che dal Nord, dove a causa della crisi economica molti di loro hanno perso il lavoro nelle fabbriche, e restano in Puglia fino a novembre, poi si dirigono verso la Sicilia, per la raccolta delle arance. In genere nei “ghetti” finiscono quelli che non sanno dove andare, quelli che escono dai centri di accoglienza di altre città, che magari non hanno ottenuto il permesso di soggiorno, quelli che perdono il lavoro e non hanno una famiglia che li sostenga, quasi tutti non possono permettersi di pagare il fitto di una casa. Della situazione si sta occupando anche la Flai Cgil di Capitanata che, nell'ambito del progetto “Ancora in campo”, si confronta quotidianamente con i lavoratori.

«Il ghetto sta crescendo a vista d’occhio, si sta ripopolando, al suo interno sono presenti tutte le nazionalità, ci sono senegalesi, nigeriani, maliani. Abbiamo incontrato anche bulgari e tantissimi rumeni. Ma il fatto che ci siano roulotte attrezzate, al posto delle vecchie baracche, mi fa presupporre che qualcuno stia finanziando questa rinascita – così Daniele Iacovelli, segretario generale della Flai Cgil di Capitanata –. Ci rechiamo spesso nei campi per avvicinare i braccianti e capire dove e come lavorano, forniamo loro delle schede su cui poter segnare sia le giornate che le ore di lavoro effettivamente svolte, ma anche segnalarci l’azienda per cui lavorano. Abbiamo mostrato loro come inviarci le informazioni, anche tramite l’utilizzo di whatsapp, ma il caporale resta una figura molto forte, infatti se un immigrato ci mostra il proprio contratto di assunzione, viene sistematicamente richiamato dal proprio caporale». A detta del segretario della Flai Cgil di Capitata, ci sarebbe una enorme discrepanza tra le giornate di lavoro effettivamente svolte e quelle dichiarate sul contratto di assunzione «Ormai funziona così, nel 2016 dagli elenchi anagrafici risultavano 23mila lavoratori con meno di 50 giornate di lavoro, 15mila erano sotto le dieci giornate e duemila braccianti avevano addirittura una sola giornata di lavoro».

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