sabato 19 settembre 2020
Il presidente di Caritas Italiana, guarda in prospettiva alla situazione delle famiglie «I giovani hanno perso la speranza: lasciati a casa senza nulla, sono costretti a ricominciare da capo»
L’arcivescovo Redaelli, presidente di Caritas Italiana:  «La politica deve intervenire con un approccio complessivo, potenziando soprattutto i servizi sociali e la nuova collaborazione tra pubblico e privato. Serve una visione, come dopo la Guerra mondiale»

L’arcivescovo Redaelli, presidente di Caritas Italiana: «La politica deve intervenire con un approccio complessivo, potenziando soprattutto i servizi sociali e la nuova collaborazione tra pubblico e privato. Serve una visione, come dopo la Guerra mondiale»

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Un viaggio dentro la «pandemia sociale». Territorio per territorio, città per città. È quello che "Avvenire" ha cominciato il 23 luglio 2020, da Roma, e che ha fatto tappa in diversi centri del Paese. Era il 23 aprile scorso, quando ancora in piena emergenza coronavirus, papa Francesco durante la Messa del mattino a Santa Marta disse parole dure e profetiche. «Tante famiglie hanno bisogno, fanno la fame e purtroppo li aiuta il gruppo degli usurai. Questa è un’altra pandemia, la pandemia sociale».

L’Italia era rinchiusa in casa eppure l’allarme già risuonava alto e forte: troppe persone non erano in grado di mettere insieme il pranzo con la cena, troppe facce mai viste avevano bussato subito alle mense della Caritas e agli sportelli dei Comuni per chiedere aiuto. Il numero degli indigenti è raddoppiato in quelle settimane, con picchi incredibili in zone dimenticate della penisola. Famiglie numerose, partite Iva senza prospettiva, anziani soli: è questo il popolo che incontrano ogni giorno, da mesi, migliaia di operatori e volontari. La presenza dello Stato si accompagna a quella, fondamentale, del Terzo settore, con molte realtà cattoliche in prima linea. Sullo sfondo, si intravede già però il frutto malato prodotto dalla "pandemia sociale", che su queste pagine abbiamo più volte documentato: il moltiplicarsi dei casi di usura, di sfruttamento, di disumanità, insieme al guanto di sfida lanciato dalle grandi organizzazioni criminali alle istituzioni. Gli aiuti economici per il Covid fanno gola alle mafie. Per questo, al territorio servono anticorpi efficaci, da ricercare nella società civile e nelle risposte attese dalla politica.​

TUTTE LE PUNTATE SULLA PANDEMIA SOCIALE

Attenzione massima al problema del lavoro, alle famiglie in difficoltà e ai giovani. E alla speranza, perché l’Italia ha bisogno urgente di ritrovarla. Al termine del viaggio di

Avvenire

nella 'pandemia sociale' – come l’ha definita papa Francesco – che sta colpendo i territori italiani, parliamo di cosa ci aspetta e di come possiamo uscirne, con l’arcivescovo di Gorizia, Carlo Roberto Maria Redaelli, presidente di Caritas italiana.


Che volto ha la pandemia sociale in Italia? Un volto strano. Ne vediamo già molti effetti, ma altri sono ancora sospesi. Dall’ultimo monitoraggio Caritas ancora in corso, ad esempio, risulta un leggero calo rispetto a sei mesi fa delle richieste di generi alimentari. Ci sono categorie in grossa difficoltà come i precari e gli stagionali del turismo, ma per il resto, vuoi per le casse integrazioni e il blocco dei licenziamenti, siamo fermi. Non siamo nel pieno del dramma, ma c’è molta paura che l’ondata arrivi a gennaio.

Come stanno sostenendo le famiglie in difficoltà le Caritas diocesane? L’elemento fondamentale in questo momento è l’ascolto. La gente ha bisogno di relazione e di sentirsi sostenuta dalle Caritas. Dal punto di vista emotivo e psicologico la situazione non è facile, ci sono casi di anziani malati cronici che rinunciano ad acquistare farmaci passati dal servizio sanitario nazionale perché sono scoraggiati. Molte famiglie hanno retto finora grazie alla pensione dei nonni, ma non durerà a lungo.

In concreto cosa si può fare? Stanno aumentando in tutta Italia le aperture di empori solidali e si è molto potenziata la collaborazione con i servizi sociali e soggetti privati. Diverse diocesi stanno preparando fondi specifici per i disoccupati. Le Caritas diocesane stanno tentando di sostenere con erogazioni le piccole imprese e le aziende artigianali che stanno producendo, ma faticano a pagare i fornitori per mancanza di liquidità e rischiano di chiudere. Poi occorre usare inventiva per investire sulla formazione e ricollocare i lavoratori con più bassa scolarità andando a cercare i lavori che sono richiesti.

Ad esempio? In molte diocesi come Gorizia, dove l’agricoltura ha ancora un forte peso, in questo momento c’è la vendemmia. Diverse aziende a conduzione familiare cercano trattoristi, ma non possono permettersi di pagare il corso per ottenere il patentino. Allora hanno puntato su questi corsi rivolgendosi a chi aveva un lavoro nella movimentazione e l’hanno preso. Lo schema si può estendere ad altri settori produttivi per aiutare molte persone.

La riapertura delle scuole ha messo in luce una nuova povertà, il divario digitale tra poveri e ricchi. Come l’ha affrontata la Caritas? In diverse diocesi sono stati distribuiti pc e tablet anche usati per aiutare le famiglie che dovevano lavorare in smart working e avevano solo uno smartphone per far seguire le lezioni ai figli. La povertà educativa raddoppia l’indigenza, è importante continuare questi interventi anche con la formazione non solo ai più giovani. I social hanno aiutato infatti gli anziani bloccati in casa a garantire le relazioni con figli e nipoti rompendo isolamento e solitudine. Gli stessi volontari più in età delle Caritas hanno svolto attività di ascolto e tenuto i rapporti con le persone bisognose grazie ai telefoni cellulari.

Lei aveva segnalato durante il lockdown le difficoltà delle famiglie con figli disabili o con persone con disturbi psichici. E oggi? Paradossalmente le situazioni più gravi ricoverate in struttura sono state maggiormente tutelate. Quelli che venivano assistiti a domicilio o nei centri diurni sono stati scaricati sulle famiglie e la situazione rimane pesante.

Cosa la preoccupa di più? Il peggioramento della situazione dei giovani, sono quelli che hanno meno speranze. Penso ai trentenni lasciati a casa perché avevano un contratto a tempo determinato magari poco pagato e se lo sono guadagnato con anni di studio e sacrifici. Adesso devono ricominciare da capo e sono frustrati. Per me la Chiesa deve seguirli con attenzione. Credo che il Terzo settore e le cooperative possano in futuro offrire sbocchi lavorativi interessanti soprattutto nei servizi alla persona se ci saranno sostegni e politiche innovative, come stiamo chiedendo al governo. Dobbiamo poi tenere alta la guardia sull’usura per non lasciare spazi alla criminalità organizzata. In Italia purtroppo c’è ancora poca educazione finanziaria, molti tra i poveri non sanno gestire le poche risorse e chi ha interesse ne approfitta. Dobbiamo stare loro vicini anche con la formazione.

Dove deve intervenire la politica? Con un approccio complessivo potenziando i servizi sociali e la collaborazione tra pubblico e privato. E poi sul lavoro e sui giovani. Ma soprattutto occorre ridare speranza anche per superare la crisi demografica. Se uno non ha speranza non mette al mondo figli. Dopo la seconda guerra mondiale l’Italia è stata ricostruita da generazioni che stavano peggio, ma si sono date da fare perché avevano una speranza.

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