mercoledì 18 settembre 2019
Il presidente dell'associazione nazionale Medicina e Persona, della quale fanno parte centinaia di professionisti della medicina in tutta Italia, prende posizione su suicidio assistito ed eutanasia.
Non si spezzi la natura solidale della missione di noi medici
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Da Ippocrate in poi («non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale... in qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei malati e mi asterrò da ogni offesa e danno volontario e da ogni azione corruttrice sul corpo degli uomini o delle donne, liberi o schiavi»), la misteriosa relazione che lega il medico al paziente è stata fondata sulla sua 'natura solidale', orientata alla tutela della vita della persona e al tentativo di alleviarne la sofferenza legata alla malattia, indipendentemente da fattori o circostanze esterne (potere, censo, etnia o cultura, gravità della patologia o possibilità di guarigione). È questo 'imperativo categorico', totalmente laico, che per secoli ha guidato la professione medica, e che ne determina ancora oggi il fascino. Tale orientamento al bene, in qualsiasi circostanza, rende il medico un riferimento sicuro per il malato e per la comunità, e la sua figura non riducibile a un ruolo meramente 'tecnico': il paziente chiede competenza e professionalità, ma sempre e insieme a ciò anche l’assicurazione che quanto gli viene proposto sia per il suo bene. È questo compito 'aggiuntivo' che rende ragione di un antico (ma sempre più vero) detto popolare: che per fare il medico occorre una 'vocazione', cioè una disponibilità ulteriore (oltre la 'tecnica') a entrare in rapporto con la persona malata, a condividere con lui le difficoltà del momento, in qualche modo a soffrire con lui.

Un medico deve accettare ogni giorno una simile sfida. Questa relazione unica e integrale con il paziente è una risorsa indispensabile per praticare la professione e per reggere nel tempo la continua necessità di applicazione, studio, dedizione, empatia. Il grande medico (oltre che santo) Giuseppe Moscati pose nella sala anatomica dell’Ospedale degli Incurabili di Napoli questo motto: «Morte sarò la tua morte» («Mors ero tua mors»), per ricordare a se stesso e ai suoi allievi la grandezza della professione e insieme la necessità per combattere il limite umano di dover sempre infondere al malato una indispensabile speranza: che la malattia e la morte non sono l’ultima parola sulla vita dell’uomo. Lo sviluppo delle conoscenze e della tecnologia in medicina, insieme al modificarsi del contesto sociale e culturale, hanno determinato due fenomeni positivi: da un lato la capacità della medicina di risolvere patologie sempre più complesse (creando però nuove condizioni di patologia cronica prima sconosciute), dall’altro una sempre maggiore partecipazione dei pazienti a decidere, insieme al medico, l’opportunità e la disponibilità a percorsi terapeutici, talvolta molto impegnativi. È il cosiddetto 'consenso informato', divenuto ormai una pietra miliare nella pratica professionale e che identifica la relazione medico-paziente come condizione indispensabile per una buona medicina. Questo è essenzialmente il contenuto principale della recente legge 219 sulle Dat che introduce – solo all’interno di tale relazione di cura – il tema del testamento biologico.

Chi oggi afferma in modo esasperato l’autonomia del paziente, sino a ritenere necessaria una nuova legge sul suicidio assistito, non comprende cosa significhi esercitare la professione medica, e tende a corrodere la natura 'solidale' della relazione medico-paziente, nell’illusorio tentativo di eliminare il limite dalla vita e la drammaticità delle domande che esso suscita. Ogni medico sa bene, al contrario, che anche nelle battaglie che 'perde' c’è qualcosa che 'vince' il limite: l’accoglienza, la condivisione, l’amore, la fraternità. Questo è il primo compito a cui il lavoro medico provoca. Non è diventando 'padroni dell’ultima ora' che se ne attutisce il dramma per il malato: consente semmai un’estraneità e una solitudine disumane. Il nostro lavoro quotidiano a contatto con persone malate suggerisce, paradossalmente, che l’aspetto più sistematico che definisce la condizione umana non è tanto quello di essere 'segnata' da un limite invalicabile – la morte – di cui la malattia e il limite fisico sono come un segno. Esiste un altro dato, assai più evidente: la domanda, il desiderio di 'guarire' o superare e vincere tale limite. La domanda, cioè, che esso non definisca completamente ciò che siamo. È questo grido, sovente inespresso, che lega il medico al malato e rende ragionevole e affascinante tutto quello che oggi facciamo: assistenza, ricerca, utilizzo della tecnologia. Solo una professione 'forte' perché consapevole del proprio compito, potrà continuare a rispondere in modo integrale – cioè professionale e umano – ai bisogni dei malati.

Presidente nazionale Medicina & Persona

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