mercoledì 31 luglio 2019
Vaccaro parla dell’inchiesta sulle aggressioni agli immigrati: «Noi, capitale del caporalato. Sui ghetti? Non bastano le ruspe, serve accoglienza»
Il procuratore di Foggia sulle aggressioni: «C'è un odio razziale»
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Nell’arco di soli 10 giorni, dal 13 al 23 luglio, la provincia di Foggia è stata il teatro di quattro aggressioni ai danni di braccianti stranieri. In tre dei casi denunciati i migranti sono stati presi a sassate, mentre il 17 luglio un lavoratore è stato speronato da un’auto mentre guidava il suo motorino. Episodi sui quali è intervenuto il vescovo di Foggia-Bovino, monsignor Vincenzo Pelvi, che ha commentato: «Coi sassi vogliono sbarazzarsi delle persone».

«Stiamo indagando sulle aggressioni dei lavoratori immigrati e abbiamo qualche speranza investigativa, ma ovviamente non le posso anticipare nulla. L’attività è in corso e stiamo battendo più piste compresa quella dell’odio razziale. Le assicuro che non abbiamo assolutamente sottovalutato la vicenda, anche perché gli episodi sono stati ripetuti. Spero tra qualche giorno di poterle dire di più». Sono le parole importanti, anche se ovviamente prudenti, del procuratore di Foggia, Ludovico Vaccaro. Ma sul preoccupante cambiamento di clima, denunciato pochi giorni fa dall'arcivescovo Vincenzo Pelvi, si dice d’accordo. «Si percepiscono fenomeni di intolleranza che magari prima era sopita e che oggi viene fuori. Ma speriamo di frenarli». Esprime poi apprezzamento per il lavoro svolto in questi giorni da Avvenire. «È utilissimo che in questo momento i riflettori della stampa siano accesi su Foggia. Quando c’è luce c’è meno spazio, perché il crimine lavora nell'ombra. L’attenzione, il creare cosapevezza nei cittadini di quella che è la situazione, che è il vostro compito, ci è di grande aiuto».

Procuratore gli sgomberi e gli abbattimenti di questo anno nel ghetto di Borgo Mezzanone, la ex pista, sono partiti da vostre iniziative. Ci spiega?
Al seguito di alcuni incendi che avevano provocato dei morti, abbiamo constatato una serie di situazioni di illegalità che ovviamente non potevano essere tollerate ulteriormente: occupazione abusiva di suolo pubblico, furto di energia elettrica, discariche di rifiuti, prostituzione, spaccio di stupefacenti. E allora si è deciso di intervenire. Ma non si poteva andare solo con le ruspe e abbattere un paese, perché dovevamo occuparci comunque di assicurare un tetto a queste persone. Proprio per questo l’operazione è stata chiamata 'Law and humanity'. Tra l’altro nel ghetto di Borgo Mezzanone c’è una buona parte di regolari e anche comunitari. È un insediamento abitativo molto complesso. C’è tanta gente che è lì solo per lavorare ma anche alcuni che delinquono, che bisogna identificare e punire. Così abbiamo sequestrato parte del ghetto e la Prefettura ha operato gli abbattimenti.

Ma ha detto che le ruspe non bastano...

Parallelamente in sede di Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica, abbiamo portato avanti un discorso per trovare una sistemazione abitativa almeno per chi è regolare. Ci sono stati dei dialoghi con la regione che ultimamente ha finalmente messo a disposizione circa 400 posti nell’ex azienda agricola Fortore, in abitazioni umanamente accettabili. Ma abbiamo incontrato resistenze a lasciare il ghetto.

Perché?
La ex pista nella sua illegalità garantisce alcune cose ai lavoratori, è il serbatoio del caporalato. Perché lì, grazie a chi svolge questa attività illecita, c’è l’incontro tra offerta e domanda di lavoro. E anche il conseguente trasporto verso i campi. Per questo nei tavoli del Comitato ho sempre insistito sul fatto che oltre all’abitazione dignitosa, occorre che nei centri dove questi immigrati vanno ad abitare ci sia la possibilità di incontrare la domanda di lavoro e garantire attraverso i servizi pubblici il trasporto in modo da togliere linfa vitale al caporalato, del quale purtroppo siamo la capitale. Lo dobbiamo stroncare soprattutto togliendo quello che lo alimenta e la ex pista lo è.

A proposito di sgomberi, siamo tornati in quello tra Rignano Garganico e San Severo, sgomberato due anni fa ma c’è ancora.

È rinato poco più in là. Che senso ha abbattere una serie di baracche che danno un tetto a più di mille persone se non si trovano delle soluzioni abitative? Altrimenti non potranno che ricostruirne altre. Per questo noi procediamo gradualmente e nello stesso tempo spingiamo gli organi competenti a trovare soluzioni. In parte sembra che ci stiamo riuscendo, speriamo sia un inizio.

Ma basta colpire i caporali?

Anche noi come tutti siamo partiti punendo il caporale. Ma ci siamo resi conto che il fenomeno non si riusciva a sconfiggere perché arrestato un caporale se ne trovava un altro, e spesso i processi non andavano a buon fine. Allora abbiamo pensato ad una strategia investigativa più ampia applicando la nuova disposizione della legge 199 del 2016 che non punisce solo chi fa l’intermediazione dei lavoratori, ma anche chi li assume in condizioni di sfruttamento, ossia i datori di lavoro.

Era un’ipocrisia pensare che gli imprenditori non fossero d’accordo coi caporali...

Sicuramente un’ipocrisia e poi ci sono le condizioni di lavoro che non sono regolari. Allora abbiamo deciso che bisognava attenzionare le aziende agricole. Però ci siamo posti il problema, in un territorio difficile e povero come il nostro, di non andare ad incidere ulteriormente su attività di natura economica. E abbiamo applicato, probabilmente tra i primi, l’istituto del controllo giudiziario. L’azienda individuata come luogo di sfruttamento non viene sequestrata ma viene nominato un amministratore. La legge prevede, e questo è un passaggio culturale molto importante, che i lavoratori che in quel momento si trovano in condizioni di sfruttamento, vengano assunti dall’ammini-stratore in condizioni di regolarità. E questo li spinge a denunciare, perché uno dei problemi principali che avevamo nel corso delle indagini è che erano i primi a fuggire perché non volevano perdere il lavoro e non volevano essere identificati in quanto irregolari. La norma invece consente anche un permesso di soggiorno per chi ha lavorato in condizioni di sfruttamento.

Così evitate che si dica 'arriva lo Stato e l’azienda chiude'.

Rispondiamo coi fatti anche se il problema più grave è se ci sono oggi in questo territorio le condizioni perché un’azienda sopravviva se rispetta le regole. Le aziende agricole e i loro rappresentanti dicono «non possiamo sopravvivere». È ovvio che bisogna distinguere tra aziende sane e altre che sfruttano. Ma c’è il problema della grande distribuzione che impone i prezzi bassi ai trasformatori che a loro volta impongono prezzi bassi ai produttori che altro non possono fare che cercare di produrre a un prezzo che gli consenta di sopravvivere, cioè schiacciando il lavoratore. Se a questo si unisce un serbatoio di gente disperata che è disposta a lavorare in condizioni che nessun altro accetterebbe, ecco che il circolo vizioso si chiude. In realtà dovrebbe essere il contrario, cioè stabilire che non si può produrre il pomodoro al di sotto di un certo prezzo, perchè ha bisogno di acqua, di cure e di chi lo raccoglie.

Non sta a voi trovare le soluzioni...

Noi cerchiamo di salvare le aziende e condurle per mano in una condizione di legalità. Se poi riescano a sopravvivere in un mercato così inquinato è un problema che spetta agli operatori economici. Ricordando che i lavoratori immigrati costituiscono un’imprescindibile forza lavoro per i nostri campi. Bisognerebbe pensare a delle soluzioni di regolarizzazione temporanee, stagionali. Bisogna dialogare, capire quali sono le esigenze di chi lavora e cercare di trovare la quadra di tutta questa complessa situazione.

Un anno fa il 4 e il 6 agosto 16 immigrati morirono in incidenti stradali a bordo dei furgoni dei caporali.
Cos’è cambiato?
Oggi sanno che c’è più attenzione e il fenomeno è diminuito però vedremo quando ci sarà la necessità di più manodopera. In quel momento anche le remore di oggi dovute ai controlli potrebbero saltare. La situazione è migliore ma se non si risolvono le cause di fondo non si risolve il problema. Secondo me ci sono le possibilità ma ci vuole l’impegno di tutte le istituzioni.

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