lunedì 10 settembre 2018
Il governo accelera: «Legge pronta entro l'anno». Il plauso dei sindacati, la rivolta della grande distribuzione. Ma quanti italiani sono coinvolti? E tenere aperto sempre e comunque conviene?
Lavoro festivo, Di Maio: il 25% aperto. La Lega: esenti le città turistiche
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Il dibattito è più che mai aperto, dopo l'accelerata impressa dal vicepremier Luigi Di Maio in queste ore: «La legge che impone lo stop la domenica e nei giorni festivi delle aperture agli esercizi e ai centri commerciali - ha dichiarato - arriverà entro la fine dell'anno».

Plaudono i sindacati, da sempre schierati contro la deregolamentazione e il conseguente far west. Preoccupata, al contrario, la grande distribuzione organizzata: a rischio ci sarebbero 40-50mila lavoratori, avverte l'amministratore delegato e direttore generale di Conad, Francesco Pugliese. Rilancia l'allarme occupazione il presidente di Federdistribuzione, l'associazione che riunisce le aziende della distribuzione, Claudio Gradara: un provvedimento di cui «non vediamo la necessità e l'opportunità» e di cui «non si capisce la tempestività».

Le posizioni in campo

Di Maio traccia la cornice dell'intervento legislativo per introdurre “turnazioni” («Ci sarà un meccanismo per cui resterà aperto il 25% dei negozi, gli altri a turno chiudono») e limiti dell'orario («Non sarà più liberalizzato, come fatto dal governo Monti. Quella liberalizzazione - sottolinea il vicepremier - sta infatti distruggendo le famiglie italiane. Bisogna ricominciare a disciplinare orari di apertura e chiusura»).

Il ministro dell'Interno Matteo Salvini specifica la sua visione: "Occorre andare avanti, avendo però a cuore il tempo delle mamme e dei papà, delle nonne e dei nonni. Non si può morire sul posto del lavoro sacrificando tutto al profitto e al Dio denaro". "Bisogna trovare un equilibrio, e su questo ci sono due proposte di legge della Lega, tra lo sviluppo la libertà di commercio e la libertà di essere mamma e papà almeno un giorno alla settimana - ha sottolineato Salvini - Che ci siamo domeniche in cui le mamme facciano le mamme e i papà facciano i papà mi pare sacrosanto".

Il ministro dell'Agricoltura e del Turismo, il leghista Gian Marco Centinaio, dal canto suo ha specificato che entrambe le proposte di legge della maggioranza, presentate in commissione Attività produttive della Camera e rispettivamente una a prima firma Lega e l'altra M5s, prevedono già che dalle nuove norme vengano escluse le città d'arte e i centri turistici. Per le due proposte di legge, quindi, gli esercizi commerciali di queste località continueranno a restare aperti nei giorni festivi senza restrizioni.

La prospettiva della chiusura festiva, comunque, non piace alla grande distribuzione: «La grande distribuzione occupa 450mila dipendenti - sottolinea Pugliese -. Le domeniche incidono per il 10% e quindi sicuramente avremo circa 40-50mila tagli. Ora quei 400 mila saranno felici di non lavorare, i 50mila non so se lo saranno». Per l'ad di Conad, la liberalizzazione delle aperture guarda soprattutto «nell'ottica dei cittadini. Ci sono 19 milioni e mezzo di persone che vanno a fare la spese nei negozi la domenica». Di certo, sottolinea Gradara, «le aperture domenicali sono un grande successo, hanno dato un sostegno ai consumi in un momento di grande necessità». E poi c'è un altro tema con cui fare i conti, l'e-commerce: mettere limitazioni al commercio mentre le vendite on-line vanno a gonfie vele sarebbe «un handicap per l'intero settore», evidenzia il presidente di Federdistribuzione.

Più cauta Confcommercio, che dice sì al dialogo per «una regolamentazione minima e sobria» delle chiusure festive: «Ridiscutere con atteggiamento non ideologico il ruolo della distribuzione è un primo passo importante e condivisibile». Netta, invece, la posizione dei sindacati, promotori anche di diverse campagne contro “la spesa” nei giorni festivi: «Intervenire è una priorità», insiste la segretaria generale della Filcams-Cgil, Maria Grazia Gabrielli, ritenendo «indispensabile un confronto per porre un limite alle aperture incontrollate, che in questi anni hanno stravolto il settore e la vita delle lavoratrici e dei lavoratori delle aziende del commercio».

Sul tema è intervenuto in queste ore anche il cardinale Edoardo Menichelli, arcivescovo emerito di Ancona: «Non posso valutare se le liberalizzazioni stiano distruggendo le famiglie, ma posso dire che già da tempo, in vari incontri con i sindacalisti si era convergenti: ridare un pò di tempo alla famiglia, è un'esigenza che si avvertiva e si avverte da tempo». «Nei colloqui con vari lavoratori», ha detto ancora il porporato, «sono stato sollecitato dagli stessi operai, dagli stessi impiegati e impiegate di questo o quel supermercato a dare loro una mano perché potessero riprendersi un po' di tempo e un po' di presenza viva e autentica all'interno della dimensione familiare. Questo è un tema su cui si potrebbe ragionare e ben ragionare».

Decisivo su questo punto l'appello lanciato da papa Francesco lo scorso dicembre durante un'udienza: «Il riposo domenicale fa vivere da figli e non da schiavi ed è un peccato perderlo».

Ma quante persone lavorano la domenica (e dove)?

A lavorare di domenica sono 4,7 milioni di italiani: tra questi 3,4 milioni sono lavoratori dipendenti e gli altri 1,3 sono autonomi (artigiani, commercianti, esercenti, ambulanti, agricoltori, etc.). È quanto emerge da un'analisi realizzata dall'Ufficio studi della Cgia e riferita al 2016. Se 1 lavoratore dipendente su 5 è impiegato alla domenica, i lavoratori autonomi, invece, registrano una frequenza maggiore: quasi 1 su 4.

Il settore dove la presenza al lavoro di domenica è più elevata è quello degli alberghi e dei ristoranti: i 688.300 lavoratori dipendenti coinvolti incidono sul totale degli occupati dipendenti del settore per il 68,3%. Seguono il commercio (579.000 occupati pari al 29,6 per cento del totale), la Pubblica amministrazione (329.100 dipendenti pari al 25,9 per cento del totale), la sanità (686.300 pari al 23 per cento del totale) e i trasporti (215.600 pari al 22,7 per cento). «La maggiore disponibilità di alcuni territori a lavorare nei weekend - sottolinea il segretario della Cgia Renato Mason - va in gran parte ricondotta al fatto che buona parte del Paese ha un'elevata vocazione turistica che coinvolge le località montane e quelle balneari, le grandi città, ma anche i piccoli borghi. E quando le attività turistico-ricettive sono aperte anche la domenica, i settori economici collegati, come l'agroalimentare, la ristorazione, i trasporti pubblici e privati, i servizi alla persona, le attività manutentive, etc., sono incentivate a fare altrettanto».

Le realtà territoriali dove il lavoro domenicale è più diffuso sono dunque quelle dove la vocazione turistica e commerciale è prevalente: Valle d'Aosta (29,5% di occupati alla domenica sul totale dipendenti presenti in regione), Sardegna (24,5%), Puglia (24%), Sicilia (23,7%) e Molise (23,6%) guidano questa particolare graduatoria. In coda alla classifica, invece, si posizionano l'Emilia Romagna (17,9%), le Marche (17,4%) e la Lombardia (16,9%). La media nazionale si attesta al 19,8%.

Negli ultimi anni, segnala il coordinatore dell'Ufficio studi della Cgia Paolo Zabeo, «il trend degli occupati di domenica è aumentato costantemente sia tra i dipendenti che tra gli autonomi. Nel settore commerciale, grazie alla liberalizzazione degli orari introdotta dal Governo Monti, una risposta alla crisi è stata quella di aumentare i giorni di apertura dei negozi. Con la grande distribuzione e gli outlet che durante tutto l'anno faticano a chiudere solo il giorno di Natale e quello di Pasqua, anche le piccolissime attività, nella stragrande maggioranza dei casi a conduzione familiare, sono state costrette a tenere aperto anche nei giorni festivi per non perdere una parte di clientela».

Come funziona nel resto d'Europa?

Rispetto agli altri paesi europei, comunque, l'Italia si posiziona negli ultimi posti della classifica tra chi lavora di domenica. Se nel 2015, in riferimento ai lavoratori dipendenti, la media dei 28 paesi Ue era del 23,2%, con punte del 33,9% in Danimarca, del 33,4% in Slovacchia e del 33,2% nei Paesi Bassi, da noi la percentuale era del 19,5%. Solo Austria (19,4%), Francia (19,3%), Belgio (19,2%) e Lituania (18%) presentavano una quota inferiore alla nostra.

In Francia i negozi tengono le serrande abbassate di domenica e durante gli altri giorni festivi, ad eccezione di quelli di alimentari che restano aperti fino alle 13. Anche in Germania tutti chiusi, tranne alcune categorie specifiche come ad esempio le panetterie, le edicole e i fioristi. In Spagna invece sono i governi regionali a stabilire le regole sulle aperture: in genere comunque queste ultime si limitano tra le 10 e le 16.

Ma tenere aperto conviene?

Altro che operazione win-win, cioè con soli vincitori: dagli esercenti ai consumatori, passando per i lavoratori del settore. Ad analizzarla nel dettaglio e con il supporto delle (ancora poche) statistiche “neutrali” a disposizione, la questione delle aperture commerciali sempre e comunque non sembra poi tanto redditizia né ricca di benefici universali. Il tema è quello degli acquisti no-stop in barba a ogni domenica e festività. Spesso, invece, si tende ad affrontare l'argomento sottolineando i presunti incassi boom nei festivi e tralasciando il rovescio della medaglia. Che c'è anche se si resta agli aspetti contabili: perché l'aumento degli acquisti domenicali è “compensato” dalla flessione che si registra nel resto della settimana.

In pratica, non si è aggiunto nulla. Per non parlare dei danni sociali prodotti dal modello "7 su 7". Si pensi, per esempio, alla dinamica che vede alcuni genitori passare il 25 dicembre a lavorare all'outlet anziché trascorrere il Natale con i figli. Molti numeri e resoconti alla base di tesi trionfalistiche su un universo commerciale “chiuso mai” sono stati sfornati da associazioni proprio come Federdistribuzione, schierate a spada tratta in difesa di questo schema.

Dall'unica ricerca super partes realizzata finora, però, il quadro che emerge sul fenomeno appare decisamente diverso. Si tratta di uno studio approfondito (170 pagine), elaborato dall'Università Politecnica delle Marche tre anni fa e che si è concentrato sugli effetti economico-sociali dei primi interventi di liberalizzazione sui negozi decisi a fine 2011 col decreto "Salva-Italia" dal governo Monti. L'indagine è stata elaborata sulla base dei pareri raccolti da titolari di esercizi commerciali al dettaglio rimasti aperti in giorni festivi. Il 69,5% degli intervistati ha affermato di «non aver riscontrato un impatto positivo sui risultati economici». Non solo: per 6 su 10 l'apertura festiva non è servita ad attrarre nuovi clienti e per il 65% non si sarebbe verificata neppure una maggiore fidelizzazione dei "vecchi". Il 75%, inoltre, non ha registrato un aumento degli acquisti.

Passando alla sfera sociale, va ancora peggio: l'82,3% dei commercianti ha evidenziato un maggiore affaticamento fisico e addirittura il 91,8% ha riscontrato una riduzione del tempo libero e di quello destinato alla vita sociale. Si citano frasi testuali in cui si parla di «disaggregazione della famiglia» per la mancanza di un giorno certo in cui astenersi dal lavoro o di «peggioramento della qualità della vita». Il giudizio dei piccoli commercianti sugli interventi di liberalizzazione non lascia spazio a dubbi. Chiedendo di esprimere una valutazione su una scala di valori tra 1 (insoddisfatto) e 5 (molto soddisfatto) la media degli intervistati è stata di 2,1. Da evidenziare, inoltre, che un terzo (il 36,2%) ha optato per il livello massimo di insoddisfazione, mentre a reputarsi pienamente soddisfatto è stato appena il 4,5%.

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