martedì 13 novembre 2018
Quell’ospedale lo conosco bene: dal parcheggiatore abusivo alle sigarette fumate nei corridoi. Una volta ci trovammo accanto al letto un venditore di calzini. Una sciatteria disumana.
I carabinieri del Nas (Nucleo antisofisticazioni e sanità) all'ospedale "San Giovanni Bosco" di Napoli dopo la diffusione di un video, in cui si vede un'anziana paziente intubata sommersa dalla formiche, 10 novembre (Ansa)

I carabinieri del Nas (Nucleo antisofisticazioni e sanità) all'ospedale "San Giovanni Bosco" di Napoli dopo la diffusione di un video, in cui si vede un'anziana paziente intubata sommersa dalla formiche, 10 novembre (Ansa)

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Il video che ritrae un via vai di formiche sul corpo di una donna in coma all’ospedale San Giovanni Bosco è deprimente. Purtroppo non è la prima volta che accade una cosa del genere a Napoli. Chi scrive ha lavorato in ospedale prima di entrare in seminario. Conosce bene i doveri del personale medico e paramedico nei confronti di un paziente allettato e privo di conoscenza. Persone fragilissime che vanno tenute sotto osservazione, controllate a intervalli brevi e regolari. Quando questa regola logica, elementare, professionale, umana viene osservata, sul letto dell’ammalato non potrà mai arrivare nemmeno una sola formica. Se è successo vuol dire che non solo quest’attenzione è mancata, ma l’igiene di tutto il reparto lascia a desiderare. Il personale medico e paramedico è inserito in una scala gerarchica cui deve obbedire e sottostare. Il capo sala organizza e sorveglia lo svolgimento del lavoro degli infermieri e degli addetti alle pulizie, in stretto contatto col primario. Controlla che tutto si svolga nel miglior modo. Consiglia, aiuta, richiama, rimprovera. Quando è il caso, nei confronti del personale negligente, è tenuto a far rapporto alla direzione sanitaria per eventuali provvedimenti disciplinari.

In ospedale si lavora con le persone, non con le cose. Un lavoro nobilissimo che ti fa avvicinare la gente quando è più fragile, indifesa, disorientata, scoraggiata. Non a caso gli ospedali nascono per il desiderio dei cristiani di servire Cristo nei fratelli sofferenti. Prendersi cura degli ammalati non è un lavoro qualsiasi ma una vocazione, una missione. Occorre avere mani misericordiose, voce bassa, piedi veloci, sguardo amorevole. Leggiamo che in seguito alla denuncia sono stati sospesi dal servizio alcuni medici e infermieri. È un buon segno, ma sarebbe del tutto ingiusto e deviante far cadere solo su questi dipendenti il peso di una struttura ospedaliera che lascia tanto a desiderare.

Un fermo immagine dal video di denuncia pubblicato su Facebook

Un fermo immagine dal video di denuncia pubblicato su Facebook - ANSA

In quell’ospedale mio fratello ha trascorso gli ultimi mesi della sua vita. Lo conosco bene. Al di là della bravura dei medici, occorre dire onestamente che non è per niente al passo coi tempi. Al contrario. S’inizia dal parcheggio. Accanto alla macchinetta per pagare, c’è sempre qualcuno che “ti dà una mano”. Una mano che non hai chiesto, non ti serve e che, naturalmente, non si ritrae vuota. Così vanno le cose. La gente tira un sospiro di rassegnazione, di sconfitta, di rabbia. Paga e tace. Con un parente in corsia non ha la forza di litigare, perché di questo si tratta. Entri e ti accorgi che per le scale, i corridoi, al bar si fuma come se niente fosse. Decine di mozziconi vengono depositati sui davanzali o tra gli infissi delle finestre. Non vengono rispettati gli orari di visita, chiunque può entrare e uscire dalle stanze di degenza.

Mio fratello negli ultimi mesi di vita si alimentava solo attraverso una sacca il cui liquido finiva direttamente nello stomaco. Un giorno ci trovammo accanto al letto un venditore di calzini. Restammo allibiti. Com’era potuto entrare un venditore ambulante in un reparto con pazienti gravissimi? Facemmo capire a quel signore di non essere interessati. Insisteva, alzando la voce e agitando la merce. Alla fine pagammo la nostra quota quotidiana di soprusi chiedendogli di tenersi i calzini. Offeso, li lanciò sul letto e se ne andò borbottando. Quei calzini, venuti da chissà dove, rimasti in sporchi depositi chissà quanto tempo, erano senz’altro zeppi di microbi e batteri. L’indomani la ferita sull’addome s’infettò. Mio fratello si aggravò. La febbre riprese a divorarlo. Fu allora che il primario – finalmente – pubblicamente rimproverò il personale chiedendo di fare più attenzione all’igiene. Al San Giovanni Bosco questo problema, sul quale si sorvola, deve essere affrontato seriamente. Poco dopo mio fratello morì. Solo allora quando cioè il rischio di ricevere qualche privilegio che non volevo era scomparso - scrissi un articolo per denunciare i mali di quell’ospedale. Fui contattato da una dottoressa che lavora in Regione. Mi riferì che il direttore dell’Asl era disposto a ricevermi. Non ritenni opportuno incontrarlo. Non era a me che doveva delle spiegazioni ma alla legge e al popolo napoletano. Quello che dovevo dire, benché fosse sotto gli occhi di tutti, lo avevo detto, toccava a loro agire. Chiediamo alle autorità competenti di mettere fine a tanta umiliante e disumana sciatteria. Energicamente e nel più breve tempo possibile.

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