mercoledì 22 agosto 2018
Una mostra molto affollata e un confronto tra i protagonisti di quegli anni, dall'ex della lotta armata Bonisoli a Mario Calabresi. Fino alla conversione di Aldo Brandirali
Foto Gallini

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Una mostra sui 50 anni dal Sessantotto. Roba da combattenti e reduci, si direbbe, invece non c’è mostra più “giovane” di questa, al Meeting. Giovane a giudicare dall’età dei ragazzi che la affollano sin dal primo giorno e - soprattutto dei curatori, un gruppo di studenti guidati dalla ricercatrice Marta Busani, assegnista di Ricerca in Storia Contemporanea alla Cattolica di Milano. Busani è curatrice fra l’altro un prezioso volume sulla storia di Gioventù studentesca, associazione che – proprio nel travaglio del Sessantotto – cedette il passo, dietro l’insegnamento di don Giussani, alla nascente esperienza di Comunione e Liberazione. Non c’è nulla di più spiazzante, in questo Meeting, che incrociare lo sguardo – reciprocamente commosso – di un ex della lotta armata come Franco Bonisoli, che da qualche anno partecipa a un lavoro di riconciliazione con le vittime, e la studentessa Annalisa Costanzo che lo ha intervistato davanti alla platea del Meeting, lunedì. Un percorso doloroso, quello fra le famiglie delle vittime ed ex della lotta armata, difficile, irto di difficoltà e di reciproche chiusure da superare. Eppure in linea con il dettato della nostra Costituzione che prevede per ogni detenuto – al termine dell’espiazione – una seconda possibilità.

Ma al di là della mostra, gli incontri sul Sessantotto si stanno rivelando una miniera preziosa di conoscenza non solo della storia del Paese, ma anche della vita delle persone, spesso schiacciate dal peso delle ideologia, con tanti giovani che ascoltano, assetati di capire. Capire che cosa si può trattenere degli ideali di un tempo, in un’era in cui la crisi delle ideologie rischia di dar vita a un rimedio peggiore del male: l’assenza assoluta di ideali per la propria vita.

C’era tanta gente ad ascoltare il direttore di Repubblica Mario Calabresi. Un cognome che evoca la prima vittima della lotta armata, il commissario Luigi Calabresi, vittima designata dal clima ingeneratosi dopo l’autunno caldo del 1969, dopo la strage di Piazza Fontana (dicembre 1969) su cui indagava e la morte in questura dell’anarchico Pino Pinelli. Ma Calabresi non ha voglia di rivangare quella storia che ha stravolto la sua famiglia e gli ha tolto il ricordo del papà. Una storia che ha visto – fra l’altro – la grande testimonianza cristiana di sua madre, la signora Gemma, capace di replicare col perdono alla crudele destino che le è caduto addosso. Nulla di tutto questo, il direttore di Repubblica infiamma la platea con una sua riflessione sull’eredità del Sessantotto, che cosa insegna e che cosa lascia sul terreno un’esperienza che ha fatto tanti morti e feriti (in senso figurato, ma anche in senso reale) inseguendo l’utopia di cambiare il mondo. Ebbene, ha spiegato Calabresi, il mondo non si cambia con i “like” di Facebook, ma con un «percorso», che prevede un «lavoro quotidiano». Non con i proclami, insomma. Un percorso, che – ha raccontato il direttore di Repubblica – è stato fatto ad esempio a suo tempo dalla zia, la sorella di sua madre, una delle tante giovani affascinate dalle utopie di quegli anni, che però poi ha capito che il mondo si cambia poco alla volta, con i gesti concreti. Come quello che lei fece al suo matrimonio, ossia devolvere tutti i regali per dar vita a una sala parto di cui c’era tanto bisogno in un ospedale dell’Uganda. «Occorre, fare fatica, rischiare», senza accontentarsi di qualche remunerazione modesta in cambio di niente, ha ammonito Calabresi fra gli applausi dei tanti giovani e meno giovani che, circa in 4mila, erano ad ascoltarlo.

Un’altra storia incredibile la aveva raccontata in mattinata Aldo Brandirali, leader in gioventù della formazione maoista Servire il Popolo, che annoverava centinaia di seguaci in tutta Italia, fra i quali ad esempio – a Salerno – il giornalista Michele Santoro. «Il mio obiettivo era davvero quello di servire il popolo, facendo mense, asili. Mentre rifiutavo l’idea di “avanguardia” – elitaria – che era tipica del partito comunista di allora. Quando nel 1975 vennero a propormi di parlare con le Brigate Rosse capii che quella strada non portava a niente di buono e iniziai un percorso di ricerca». La prima “folgorazione” avvenne dopo ben 7 anni, alle grotte di Lascaux. Davanti a quel capolavoro di arte preistorica Brandirali ebbe come l’intuizione, per la prima volta, che «la soluzione può arrivare solo se uno si apre al mistero».

E fu proprio in quel momento che avvenne l’incontro con don Giussani. Io avevo maturato l’idea che dovessi essere da quel momento in poi più moderato meno esuberante, lui invece si disse colpito proprio dal mio entusiasmo». Non c’era insomma da dismettere l’ideale di un tempo ma c’era da indirizzarlo nella direzione giusta, una direzione che non tradisce, che non crea pericolose illusioni. Dal suo nuovo impegno animato dalla conversione al cristianesimo sono nate due opere, una per aiutare i detenuti (“Incontro e presenza”) e un’altra a sostegno degli stranieri (l’associazione “San Martino”) «con la quale abbiamo portato aiuto a circa 20mila persone», ricorda Brandirali. Poi, forse, l’impegno pubblico più conosciuto, segretario cittadino di una Dc in crisi a Milano, dal 1992 e consigliere comunale per 17 anni, diventando anche assessore nella fila di Forza Italia. Singolare il motivo per il quale – oggi spiega – nacque l’interesse verso Cl: «Più leggevo sui giornali che erano integralisti e più maturai dentro di me l’idea che forse cercavo proprio un’esperienza così, tosta, coraggiosa. E così è stato», dice oggi, godendosi – un po’ da pensionato, almeno per età anagrafica - questo Meeting, in visita fra gli stand a salutare amici e a incontrare esperienze, dopo aver avuto modo di raccontare la sua.

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