martedì 13 aprile 2021
La Ong si occupa della pulizia degli indumenti (e dei pupazzi) dei rifugiati malati di scabbia e altre malattie cutanee. The Lava Project in meno di 2 anni ha lavato 21.200 sacchi di biancheria
«Le persone erano costrette a lavare i propri indumenti in mare o usando bottiglie, perché non c’era acqua sufficiente per lavare se stessi». Con il sopraggiungere della pandemia, le lavatrici di 'The Lava Project' si sono riempite di mascherine di stoffa, fornite agli abitanti del campo da un’altra Ong e lavate periodicamente.

«Le persone erano costrette a lavare i propri indumenti in mare o usando bottiglie, perché non c’era acqua sufficiente per lavare se stessi». Con il sopraggiungere della pandemia, le lavatrici di 'The Lava Project' si sono riempite di mascherine di stoffa, fornite agli abitanti del campo da un’altra Ong e lavate periodicamente.

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Capita di trovare anche pupazzi e peluche nei cestelli delle lavatrici di una lavanderia davvero speciale sull’isola greca di Lesbo. «È la parte più tenera della nostra attività: i giocattoli di pezza arrivano da noi davvero sporchi perché i bambini del campo li tengono con loro a lungo. Adoro il momento in cui li riconsegniamo perfettamente puliti».

Si intuisce che sorride mentre parla al telefono, Rebecca Lally, 23 anni, coordinatrice di 'The Lava Project', Ong che offre un servizio di lavanderia per indumenti di rifugiati con malattie cutanee, scabbia soprattutto, triste effetto collaterale della permanenza nell’hotspot europeo di Kara Tepe. «C’è scabbia un po’ dappertutto fra le tende, noi trattiamo i panni dei casi più seri. I più colpiti sono i bambini, perché la loro pelle è più sottile» aggiunge. A cinque minuti d’auto dall’accampamento, 'The Lava Project' ha uno spazio con quattordici grandi lavatrici, in fila una dopo l’altra.

«In meno di due anni abbiamo lavato 21.200 sacchi di biancheria. Al momento siamo quattro volontari da Gran Bretagna, Irlanda, Usa e Grecia, e due volontari richiedenti asilo dalla Somalia. Ai tempi di Moria coinvolgevamo più rifugiati del campo, ma ora non si può uscire liberamente da Kara Tepe, che pure non è un campo chiuso ma che in qualche modo intrappola le persone. Ora chi viene da noi vive fuori». Il nuovo accampamento non è migliore di quello vecchio e infatti sono in molti a chiamarlo Moria 2. «Dal punto di vista igienico, la situazione è critica come nel precedente sito. La percentuale di popolazione con scabbia o altre malattie della pelle sembra la stessa. Ci sono meno casi solo perché la popolazione di Kara Tepe è minore». Delle dodicimila persone rimaste per strada all’indomani dei roghi che rasero al suolo Moria, restano oggi sull’isola in 6.900. Dopo sei mesi senza acqua corrente (i primi senza nemmeno la possibilità di fare una doccia) ora il campo verrà collegato alla rete idrica.

«Le persone erano costrette a lavare i propri indumenti in mare o usando bottiglie, perché non c’era acqua sufficiente per lavare se stessi». Con il sopraggiungere della pandemia, le lavatrici di 'The Lava Project' si sono riempite di mascherine di stoffa, fornite agli abitanti del campo da un’altra Ong e lavate periodicamente.

Mentre Rebecca e i suoi volontari passavano da un lavaggio all’altro, lunedì 27 marzo la commissaria per gli affari interni dell’Ue Ylva Johansson ha visitato l’isola. Ha annunciato 250 milioni di euro di finanziamenti per cinque nuove strutture nell’Egeo.

Tra i tanti appelli rivolti alla rappresentante europea, c’è stato quello durissimo di Medici senza Frontiere: «Finché l’Unione darà la priorità a contenimento e rimpatrio dei migranti alla frontiera esterna rispetto a protezione e a un’accoglienza dignitosa, chi cerca sicurezza in Europa continuerà a soffrire» ha scritto Hilde Vochten, coordinatrice medica di Msf sull’isola. Se si «insiste, per compromesso politico, a replicare lo stesso modello che ha già creato tanti danni e sofferenze, le promesse fatte resteranno solo parole vuote». Finché sarà così, i volontari di 'The Lava Project' non smetteranno di caricare lavatrici, assicurare un po’ di igiene e soprattutto provare a dare l’accoglienza umana che manca.

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