venerdì 19 aprile 2019
Almeno 3.000 sono ancora nelle strutture nelle zone interessate dal conflitto intorno a Tripoli. E la situazione è sempre più confusa
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Nuovo allarme umanitario per i migranti bloccati nei centri di detenzione a Tripoli, sulla linea del fronte. Lo hanno rilanciato l’Onu, l’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) e le Ong impegnate su terreno. In particolare l’italiana Intersos, che opera con personale italiano e libico in un centro per minori con un progetto finanziato dall’Unicef. L’Alto commissario Onu per i rifugiati, Filippo Grandi, ha ribadito che il conflitto provocherà nuove partenze perché i centri sono stati abbandonati dai miliziani andati a combattere e i profughi in cella hanno bisogno di tutti i servizi essenziali.

Federico Prelati è il capo missione in Libia di Intersos. Con altri due connazionali espatriati è stato evacuato dalla Farnesina a Tunisi, quando le truppe di Haftar hanno attaccato la capitale libica e da lì sta seguendo il lavoro dell’equipe composta da 12 cittadini libici per rispondere alla crisi umanitaria generata dal conflitto con due team mobili. Da domenica scorsa cercano di raggiungere e supportare le famiglie e i bambini che cercano rifugio nei ripari di emergenza che, spontaneamente, si stanno creando nelle scuole, nelle moschee e nelle municipalità.

«Una parte dei centri nella zona dei combattimenti è stata evacuata e ricollocata in altre prigioni. La fascia più a rischio è costituita dai migranti, perché sono i più poveri. La popolazione locale ha maggiori risorse e può contare su parenti e amici. Noi comunque stiamo rispondendo alle esigenze degli sfollati dalle zone di conflitto con due centri mobili». Intersos sta inoltre collaborando a un progetto per aiutare i bambini vulnerabili e le loro famiglie. «Abbiamo chiuso il centro, ma cerchiamo di distribuire i generi di prima necessità e tenere corsi di educazione non formale di lingua e matematica a circa 600 ragazzi subsahariani. Parlano poco l’arabo, sono francofoni e quindi a rischio integrazione».

Sono arrivati in Libia al massimo da tre mesi, spesso gli adulti che li accompagnano e che dichiarano di essere i genitori non lo sono. Le famiglie li affidano a conoscenti in partenza per portarli in Libia a lavorare e mandare soldi a casa. Ma ora l’Europa è di nuovo la méta, vista la situazione impraticabile. Secondo il portavoce dell’Oim per il Mediterraneo, Flavio Di Giacomo, «ci sono al momento meno di 3mila migranti nei centri di detenzione vicini ai luoghi sotto attacco e siamo chiaramente preoccupati. Sarebbe necessario farli uscire dai centri affinché possano essere messi sotto protezione».

Nonostante gli scontri armati, l’Oim è riuscita a far uscire rispettivamente 188 e 136 persone con il programma di Ritorno volontario umanitario. Nel contesto attuale si tratta di un’evacuazione di fatto che ha permesso di mettere in sicurezza persone in pericolo nell’area di Tripoli. Tutti i migranti erano originari dell’Africa occidentale.

Lunedì l’Acnur ha ricollocato altri 150 rifugiati detenuti ad Abu Selim, a sud di Tripoli, perlopiù donne e bambini portati nella struttura di accoglienza dell’organizzazione, che si trova nel centro della capitale libica, al riparo dalle ostilità. È stata la seconda operazione di trasferimento in due settimane. La settimana scorsa altre 150 persone erano state spostate dalla galera di Ain Zara al Gdf, che al momento ospita oltre 400 persone ed è pieno.

I team medici di Msf stanno anche fornendo kit per l’igiene in diversi rifugi per le famiglie libiche sfollate e hanno donato kit per feriti di guerra a due ospedali, uno a Tripoli e uno a sud della città. L’Ong è preoccupata per un gruppo di oltre 80 pazienti trasferiti due mesi fa in un centro di detenzione a Sirte, molti dei quali in gravi condizioni mediche, perché non è più possibile fornire loro visite e cure mediche. A causa del conflitto, infatti, tutti i trasferimenti medici gestiti da Medici senza frontiere dai centri di Khoms, Zliten, Misurata, Beni Walid e Sirte verso gli ospedali di Tripoli non sono più possibili.

Restano circa 2.700 rifugiati e migranti nei centri dell’area dei combattimenti a rischio della vita. Oltre a quelli rimasti ad Abu Selim, le altre prigioni sulla linea del fuoco, in situazione di pericolo, sono Qasr Bin Ghasheer, Al Sabaa e Tagiura. L’Acnur ha tentato di trasferire tutti i 728 detenuti di Qasr Bin Ghasheer nel più sicuro centro di Zintan. Ma i rifugiati eritrei detenuti da tempo hanno chiesto aiuto e inscenato una protesta per venire trasferiti fuori dalla Libia. «È una corsa contro il tempo – ha dichiarato l’assistente del capo missione in Libia, Lucie Gagne –. Abbiamo bisogno urgentemente di soluzioni per le persone intrappolate in Libia. Servono soprattutto i corridoi umanitari per trasferirli in sicurezza fuori dal Paese».

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