domenica 27 settembre 2020
In Piemonte e in Trentino altri due casi di famiglie disgregate, con interventi discussi da parte dei servizi sociali che invece di risolvere i problemi sembrano ingigantire le difficoltà
Marianna, che paga 200 euro per poter vedere i suoi bimbi

Ansa

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A Trento da quattro anni c’è una mamma che paga ogni mese quasi 200 euro per stare qualche ora con i figli ospitati in una struttura per minori. Servono per retribuire l’educatore che assiste all’incontro – tre ore, tre volte al mese – su ordine del Tribunale e vigila sul tenore del colloquio. Ai ragazzi, che adesso hanno 12 anni, la mamma non può dire 'vi voglio bene'. Secondo gli assistenti sociali queste parole umanissime, che ogni genitore vorrebbe ripetere sempre ai suoi figli, potrebbero essere intese come la volontà di gettare discredito sulla struttura d’accoglienza nella quale sono ospitati da quattro anni. Dicendo 'vi voglio bene', secondo la lettura pedagogica degli esperti, potrebbe voler dire in realtà: «Sono io, la mamma, a volervi bene. Non gli operatori della struttura». Quindi, vietato. Se nel corso dei colloqui, dalla sofferenza di Marianna T. scappa qualche altra espressione d’affetto, l’educatore interviene. Deve giustificare gli 11 euro all’ora che la donna è chiamata a versare per ciascuno dei suoi figli. Quindi 22 euro che, per tre ore, fanno 66 euro. In un mese, quando i tre incontri mensili concessi dai giudici sono tutti confermati, si arriva a 198 euro. Sembra una piccola 'ingiustizia' ma, al di là del sacrificio economico, non è così. Per Marianna è anche un ricatto. Se non paga, niente incontri. Ma uno Stato può imporre tariffe sull’affetto? Uno Stato che, oltretutto, è responsabile delle condizioni in cui si trovano Marianna e i suoi figli. Perché l’allontanamento coatto non è mai la soluzione a un problema di conflittualità tra i genitori. Ma succede troppo spesso. E non solo a Trento.

E a Torino c’è Salvatore, un padre a cui una relazione dei servizi sociali ha sottratto una bambina sulla base di una bigenitorialità che, in questo caso, non è realizzabile. Secondo l’esperta la piccola, affidata al padre, avrebbe dovuto trascorrere alcune ore anche con la madre quando un’altra relazione dell’Asl ha certificato che Violetta (nome di fantasia) ha subito maltrattamenti dalla donna e abusi da parte del convivente di lei. Una situazione talmente allarmante da indurre la psicologa a convincere il magistrato di turno a cambiare ur- gentemente la collocazione della bambina, in precedenza affidata alla madre. In poche ore, di fronte ai dati inoppugnabili dei test e ai racconti espliciti della piccola, Violetta è stata affidata al padre. Poi però un’altra psicologa, di un’Asl diversa, si è convinta che qualcosa non funzionasse. Per mesi ha insistito perché il padre convincesse la piccola a vedere la madre. Sarebbe arrivata a minacciarlo di affidare non solo Violetta, ma anche le altre due figlie dell’uomo, ai servizi sociali. Poi la psicologa ha deciso di tirare diritto. Ha annunciato lei stessa alla bambina che ci sarebbe stato un incontro protetto con la madre. La piccola, presa dal terrore, si è nascosta sotto un tavolo e nessuno ha potuto smuoverla fino all’arrivo del padre al quale poi, per 'punizione' è stata tolta la responsabilità genitoriale. L’11 febbraio di quest’anno i servizi sociali hanno prelevato a scuola la bambina, con uno dei soliti blitz contrari a tutti i trattati internazionali, e l’hanno rinchiusa in una struttura per minori.

Marianna e Salvatore, due genitori feriti, due storie complesse come centinaia di altre, che qui possiamo solo sintetizzare. All’origine, come sempre, una conflittualità di coppia che sfocia in contrasto sordo, in battaglie a colpi di carte bollate. Avvocati, psicologi, servizi sociali, tribunali, ctu, incomprensioni e violenze. Perché, come più volte sottolineato, quando la macchina del sistema di assistenza ai minori fuori famiglia si mette in moto, è quasi impossibile fermarla. Le vicende di Marianna e di Salvatore sono tristemente emblematiche di rigidità e di contraddizioni che attestano, ancora una volta, l’urgenza di riforme urgenti.

Una prova? La mamma di Trento non paga solo per vedere i figli. Versa anche 300 euro al mese all’ex partner perché i figli sono formalmente a lui affidati. Ma solo sulla carta, appunto, perché l’uomo a causa del suo lavoro serale, ha ammesso di non potersi occupare dei figli che allora sono stati allora collocati in una comunità. Quindi non li mantiene eppure, anche se i figli sono in comunità. riscuote per loro un assegno. Non sarebbe stato meglio affidarli alla madre che li ama e li conosce? No, hanno detto i periti perché la donna, si legge nella relazione, «pur apparendo adeguata nei compiti afferenti l’accudimento primario nel contempo mostra fragilità che minano le capacità riflessive, di mentalizzazione, di sintonizzazione sui minori». Una contraddizione che balza subito evidente. Ma la revisione del decreto, da tempo chiesta da Marianna, non sembra tra le priorità del tribunale competente. «I miei figli non ce la fanno più. E io neppure. Chi può aiutarmi?».

E Salvatore? Non riesce più a vedere la figlia dallo scorso 29 maggio. L’avevano informato di un malessere della sua Violetta, forse un soffio al cuore. «Serve allora una visita cardiologica », ha chiesto subito il padre. Ma i responsabili della struttura hanno preso tempo, si sono trincerati dietro difficoltà burocratiche. Salvatore è stato costretto a presentare un esposto ai carabinieri per ottenere quello che sarebbe stato un diritto, sancito anche dalla Costituzione. In pochi giorni la visita specialistica è arrivata. Ora la piccola dovrà essere monitorata. Il padre ne chiede il ritorno a casa. Servizi sociali e giudici non si esprimono. «Sono stato costretto a sporgere nuove denunce. Sono sfinito. Avevo una pizzeria con quattro dipendenti e sono stato costretto a venderla. Sto sviluppando reazioni allergiche. Ma non si rendono conto che un genitore non può resistere a queste torture?».

Osserva Vincenza Palmieri, docente di pedagogia familiare, che ha steso una relazione sul caso di Violetta presentata al Tribunale: «Come in tantissimi altri casi le relazioni parentali sono state giudicate senza aver visto mai i bambini insieme ai genitori. Valutare un bambino solo sulla base di considerazioni generiche senza vederla insieme ai familiari, è un giudizio parziale. Vuol dire ignorare – prosegue l’esperta – quello che i bambini manifestano non solo con le parole, ma anche con il corpo. Questa bambina perde i capelli, ed è un fenomeno molto diffuso, perché avverte un malessere diffuso. Deve essere piegata alla volontà di qualcun altro. Nelle Ctu si parla di rischio psico-evolutivo per giustificare l’allontanamento dei bambini. Il rischio è solo un’ipotesi. Ma come si fa a decidere sulla base di un’ipotesi? Passiamo da un rischio ipotetico a un danno certo».

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