sabato 26 settembre 2020
Dopo Financial Times ed Ecdc arrivano gli elogi dell’Oms. Ma anche il nostro Paese è a rischio: ecco perché

COSA FUNZIONA

1 L’uso delle mascherine

Il commissario per l’emergenza, Domenico Arcuri, lo ha rimarcato anche ieri: «Produciamo un numero di mascherine più che sufficiente a soddisfare la totalità dei fabbisogni. Siamo anche l’unico Paese del mondo che distribuisce tutti i giorni 11 milioni di mascherine gratuite alla scuola». È vero: primi in Europa ad essere travolti dal Covid, gli italiani – di necessità virtù – hanno imparato ad usare massicciamente le mascherine.
Obbligatorie al chiuso e, in molte regioni, anche all’aperto. E quando sono scoppiati focolai, come negli ultimi giorni in Liguria e Campania, si è optato subito per ordinanze in questo senso. Anche il prezzo fisso delle chirurgiche (50 cent) e la distribuzione in edicole e tabaccherie – che pure ha sollevato polemiche – si è rivelata una scelta azzeccata.

2 Il lockdown e le regole (rigide)
Oggi sentiamo parlare di “nuovi lockdown” in Spagna, Francia e in Gran Bretagna, ma le chiusure degli altri Paesi non sono paragonabili a quella vissuta dal nostro tra marzo e maggio: bar e ristoranti, tanto per fare un esempio, restano aperti, così i mezzi pubblici e molte aziende. A Madrid delle 800mila persone a cui sono state applicate le ultime misure restrittive, per esempio, l’86% lavora e si sposta quotidianamente.
L’Italia, invece, s’è fermata davvero: uno stop che paghiamo con proiezioni pesanti rispetto a produttività e occupazione, ma che ha determinato un’inversione di rotta decisiva nella curva epidemica. Quel modello, e quelle regole ferree, vengono poi applicate ogni volta che si istituisce una “zona rossa”: un pezzo di territorio chiude e riapre quando i contagi sono rientrati.

3 La macchina del tracciamento
Doveva funzionare e alla fine – nonostante lo scarso contributo della app Immuni – lo sta facendo: un asso nella manica della strategia italiana anti-Covid è il “contact tracing”, quella mappatura dei contatti cioè che ha salvato il Veneto (per intuizione del virologo Andrea Crisanti) e che nelle ultime settimane è stata organizzata in maniera massiva da Nord a Sud: oggi per ogni caso riscontrato partono tempestivamente indagini. Le squadre di operatori specializzati – chi dirottato dagli uffici di Igiene pubblica, chi reclutato appositamente tra neolaureati e specializzandi – si attivano cioè testando nel più breve tempo possibile (24/48 ore) tutti i contatti stretti dei nuovi contagiati. Si tratta di una tecnica aggressiva: si va a stanare il virus e lo si insegue prima che si presenti negli ospedali. E così sono stati contenuti i focolai nelle Rsa, nelle ditte di logistica o delle carni.



COSA NON FUNZIONA

1 L’insofferenza dei giovani
Il problema s’è posto con forza quest’estate, coi rientri dalle vacanze da Paesi a rischio (Spagna, Grecia, Malta e Croazia) e soprattutto con la movida nelle discoteche, riaperte senza controlli. I giovani – recalcitranti a mascherine e distanziamento e quasi sempre asintomatici – sono stati l’elemento scatenante della seconda ondata epidemica italiana, seppure contenuta. Dai 300 casi quotidiani di fine luglio siamo arrivati a quasi 2mila: gli esperti l’hanno chiamato “effetto Ferragosto”, perché nelle settimane centrali del mese i ragazzi hanno perso qualsiasi freno. Non a caso l’età media dei contagi è crollata fino a 29 anni, per poi tornare a salire. Il virus da strade e locali è tornato nelle case e ha ripreso a correre tra i più fragili, con ricoveri e terapie intensive in aumento.

2 Le fughe in avanti delle Regioni
All’indomani della riapertura del Paese sono state – dalla Calabria alla Liguria – le decisioni di bruciare le tappe con bar e ristoranti. Poi quelle circa la capienza dei mezzi pubblici e le misure di sicurezza, dai controlli alla febbre misurata a scuola. Ora il pressing sugli stadi. Piccoli o grandi, gli strappi delle Regioni rispetto alle scelte del governo e del Comitato tecnico scientifico hanno contraddistinto fin dall’inizio la gestione dell’epidemia italiana. E ne hanno spesso inceppato la già difficile macchina, col risultato di confondere i cittadini e di creare diseguaglianze sul territorio. Il ministro della Salute Speranza e quello agli Affari regionali lo hanno ribadito più volte: per tenere sotto controllo il virus serve procedere compatti, prendendo decisioni condivise.

3 La sanità territoriale che non c’è
La ferita di una sanità che si è riscoperta tutta concentrata sugli ospedali, e che ha contato più della metà dei suoi 36mila morti fuori, non si è ancora rimarginata. Nonostante gli auspici delle autorità e i fondi destinati al comparto, le Ats faticano ancora a gestire il carico di lavoro imposto dal virus, che se prima era legato ai pazienti bisognosi di cure ora lo è invece alla richiesta massiccia e crescente di test, tamponi e vaccini antinfluenzali. Altro nodo da sciogliere, quello della reperibilità e disponibilità di medici di base e pediatri: si era parlato di un potenziamento della rete territoriale per visite e controlli, proprio per evitare il sovraccarico delle strutture ospedaliere, ma oggi in molte parti d’Italia resta difficile raggiungerli per la mole di pazienti che devono gestire.

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