giovedì 12 novembre 2020
I parenti delle vittime di inizio marzo: "In giro c'è troppa sottovalutazione, quella tragedia per noi è ancora viva"
Vaccinazioni a Bergamo

Vaccinazioni a Bergamo - Fotogramma

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Non è successo «dieci anni fa, ma solo da qualche mese, eppure i morti non hanno insegnato granché». Giuliana Barcella ha perduto il marito e il fratello, due delle 188 vittime di Covid-19 di Nembro, piccolo centro della provincia di Bergamo che è diventato uno dei simboli della prima ondata di Coronavirus. I racconti di chi ha vissuto quella prima emergenza, ascoltati oggi, pesano come macigni. «Vedo sottovalutare, se non negare, la pandemia e scaricare la responsabilità di prendere decisioni. Mi chiedo se si pensi che sia stata una maledizione riservata solo a noi. I nostri cari sono morti inutilmente?». Suo marito Tullio Carrara, bibliotecario da una vita, è deceduto nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale di Lecco. «Ho richiesto la cartella clinica e l’ho letta, per diverse sere, e ho pianto, tanto. Perché è stato riempito di farmaci, ma non rispondeva alle cure. Non c’è da far colpa a nessuno, tutto era all’inizio, nuovo. Chi è stato colpito in quei mesi ha pagato con la vita, mentre oggi se ne sa di più, e ci si può magari salvare. A Nembro molte persone non sono più le stesse di prima. Il virus è stato un grave danno, un lutto per tutti. È come se questa tragedia ci dicesse: voi esseri umani siete piccoli, non ci sono soldi, né potere che tengano».

Le sue parole e quelle di altri concittadini che hanno perduto familiari per il Covid- 19 hanno dato vita a un recital-ricordo per l’edizione 2020 del 'Bergamo Festival Fare la Pace'. Qualche settimana fa una replica è arrivata proprio nel cineteatro di Nembro e allora la comunità ha riascoltato, dal palco, quello che le era toccato vivere di persona, con le ferite non ancora rimarginate.

«Se fossero stati già malati? No, erano sani. Uno, due, tre: tre fratelli andati in dieci giorni. Per primo è morto mio zio Mauro. Il 23 febbraio l’ho portato io al pronto soccorso di Alzano» racconta Laura Lazzaroni, negoziante di Nembro, che in meno di due settimane ha seppellito il padre e gli zii. «Due minuti dopo essere saliti in reparto, è successo il finimondo, tutto blindato, hanno chiuso l’ospedale. A noi parenti dei ricoverati hanno detto che saremmo dovuti restare lì fino al giorno dopo. Verso le sei, però, ci hanno radunati, pensavamo ci sottoponessero a un test. Invece ci hanno fatto uscire da una porta secondaria». Quella domenica di febbraio avrebbe poi rappresentato per i bergamaschi il drammatico, ufficiale avvio della pandemia.

«In quei mesi sembrava non esserci più morte se non per coronavirus» ricorda Giovanni Beretta, proprietario del negozio di ferramenta nella via centrale di Nembro. A causa del Covid-19 ha perduto il padre e la zia. «L’Ats avrebbe dovuto informarci dell’esito degli esami, perché nel caso di positività ci sarebbe stata la quarantena. Per quindici giorni abbiamo telefonato e insistito: 'Allora, mio padre era positivo?'. C’era sempre una scusa diversa: non è di nostra competenza, chiami quest’altro numero...».

Il dolore per le morti di marzo e aprile ha preso, per tutti, contorni confusi, astratti, complicati da elaborare. È stato così per Francesco Barcella, che ha perso il padre Sandro: «Quand’è morto avrei voluto vederlo. Sentivo la necessità di essere vicino al suo corpo, avrebbe reso la cosa più reale. Anche le questioni pratiche, come il trasporto della salma, mi hanno scombussolato. Sapere in quale giorno sarebbe stato cremato aveva assunto un’importanza fondamentale, oltremisura. Mi avevano detto che sarebbe accaduto il 30 marzo in Piemonte, poi però le ceneri sono arrivate quattro giorni prima, il 26, e dalla fattura ho scoperto che era stato cremato a Varese. Pensi che tuo padre sia in un posto ben preciso, e invece era già altrove. L’abbiamo lasciato in ospedale ed è come se fosse evaporato'.

L’avvio del lockdowndi marzo aveva coinciso esattamente con il ricovero di Ivana Valoti nel reparto di ginecologia ad Alzano, quello dove lei, ostetrica da molti anni, lavorava. Era stato riconvertito per il Coronavirus. «Il 9 marzo è entrata in ospedale e fuori avevano chiuso tutto» racconta suo figlio Gianluca. «Siamo rimasti sospesi noi, ma è rimasto fermo anche il mondo esterno. Il blocco non ci ha aiutato ad alleviare il dolore». Sia lui che il padre l’hanno ritrovata in sogno, per diverse notti. «Stiamo vivendo una situazione capovolta: di solito se fai incubi, poi ti svegli e ti senti sollevato. Invece ora il problema è al risveglio, perché ti rendi conto che la vita adesso è questa».

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