sabato 13 ottobre 2018
La relatrice dell'Onu Urmila Bhoola in missione nelle aziende agricole e centri di accoglienza in Calabria, Puglia e a Latina. «Nei ghetti condizioni inumane, discriminazioni e poche condanne»
Umila Bhoola

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È durata dieci giorni, dal 3 ottobre fino a ieri, la missione in Italia di Urmila Bhoola, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulle forme contemporanee di schiavitù. Durante la sua visita, l’esperta indipendente ha incontrato funzionari del Governo, associazioni dei datori di lavoro, sindacati e molti lavoratori sfruttati. È stata in aziende agricole, in un centro di accoglienza straordinaria (Cas) per migranti, in centri di accoglienza ufficiali per lavoratori stranieri in Calabria, Puglia e Latina e negli «insediamenti informali» di Borgo Mezzanone (Foggia) e di San Ferdinando (Calabria). La relazione integrale sarà presentata nel settembre del 2019 al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite. Ma già i dati dello « statement » (la nota di fine missione, diffusa ieri) fotografano un caporalato diffuso in danno della manodopera straniera: «Dei circa 1,3 milioni di lavoratori agricoli, quasi 405.000 sono migranti in situazione regolare o irregolare – si legge nel rapporto –. I migranti costituiscono la maggior parte di coloro che lavorano nei campi». Fra le cause del caporalato, c’è il fatto che la stagionalità del lavoro agricolo comporti una domanda di lavoratori durante determinati periodo dell’anno, «spesso con breve preavviso». Ma i centri pubblici per l’impiego non funzionano e dunque «si ricorre ai caporali o intermediari» che «diventano indispensabili». La nota si chiude con l’esortazione al governo italiano a «esaminare» almeno sette «questioni fondamentali»: l’istituzione di «centri pubblici locali per l’impiego» in grado di far corrispondere offerta e domanda di lavoratori nel settore agricolo, per togliere spazio a intermediari e caporali; garantire sistemi di trasporto pubblico nelle zone rurali, durante le stagioni del raccolto; creare incentivi più forti per segnalare lo sfruttamento del lavoro, aumentando la protezione delle vittime e assicurando «l’accesso a meccanismi di denuncia» indipendentemente dalla condizione di migrante. Ancora, la relazione chiede all’Italia: il rafforzamento degli Ispettorati del lavoro per «garantire che le ispezioni siano efficaci ed esenti da corruzione»; l’accesso ai servizi di base (assistenza sanitaria, alloggi e servizi igienici adeguati) a tutti coloro che vivono nel territorio italiano, «a prescindere dalla condizione di migrante, in conformità delle norme internazionali sui diritti umani»; la garanzia di «maggiore trasparenza nelle catene di approvvigionamento agricolo». Infine, sul piano legislativo, il documento sollecita governo e Parlamento a ratificare il «P029» (protocollo del 2014 sul lavoro forzato) e la Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti dei lavoratori migranti e delle loro famiglie.

«In questi giorni in Italia, ho parlato con molte vittime di sfruttamento agricolo e di schiavitù. Fanno lavori massacranti, alcuni per 17 ore al giorno, senza riposi né ferie pagate, in luoghi insicuri ed esposti ai pesticidi. Alcuni di loro, feriti sul lavoro, sono stati scaricati dai caporali nei pressi degli ospedali, con l’obbligo di non divulgare dettagli sull’azienda dove era avvenuto l’incidente. Ho incontrato un ventenne, giunto dall’India un anno fa: la sua famiglia aveva messo insieme 10mila euro per farlo venire in Italia. Ma una volta qui, dopo tre mesi di lavoro, non è mai stato pagato: ogni volta che ha chiesto il salario, è stato picchiato violentemente...». Dal 2014, Urmila Bhoola ricopre l’incarico di Relatrice speciale delle Nazioni Unite sulle forme contemporanee di schiavitù. Nata in Sudafrica, ha un passato di impegno contro l’apartheid, come avvocato e attivista nella difesa dei diritti umani. Il suo inglese non è quello felpato in uso fra le alte burocrazie del Palazzo di Vetro: è un reato grave, avverte, «costringere lavoratori che generano miliardi di euro nelle esportazioni agricole a vivere in baraccopoli e lavorare fino a 14 ore al giorno».

Ritiene che le autorità italiane non facciano abbastanza?

La legge del 2016 è una buona normativa, introduce pene severe e altri strumenti contro il caporalato. Ma le leggi da sole non sono sufficienti. Vanno sostenute dalla volontà politica e potenziate con risorse materiali e umane. Le situazioni che ho constatato sollevano importanti interrogativi sul fatto se si stia facendo abbastanza per garantire i diritti umani e la dignità umana dei lavoratori migranti, che sono indispensabili per l’economia agraria dell’Italia.

Quanti sono i 'nuovi schiavi' nelle campagne italiane?

Secondo le stime, più di 400mila lavoratori agricoli in Italia vengono sfruttati e almeno 100mila fanno fronte a condizioni di vita inumane.

Chi li sfrutta?

Il caporalato è un sistema. Ci sono gli intermediari del lavoro, che forniscono manodopera alle aziende agricole, e una rete di associazioni per delinquere. Anche le mafie sono coinvolte. Eppure, i procedimenti giudiziari continuano a essere pochi, in particolare le condanne ai datori di lavoro: sono stata informata dal ministero della Giustizia che nel 2016 sono iniziati dieci processi penali, non ancora conclusi. E servono più ispettori del Lavoro: in provincia di Foggia, su 31 quelli assegnati al settore agricolo sono 6 per un totale di 9mila aziende.

Cos’altro ha potuto verificare?

Il salario è da fame: 3 euro l’ora o 50 centesimi a cassetta di arance raccolte in Calabria. Ma oltre allo sfruttamento lavorativo, molti migranti – in particolare quelli dell’Africa sub-sahariana – subiscono una discriminazione razziale, che impedisce loro di accedere ad alloggi dignitosi. Centinaia vivono in condizioni terribili in luoghi isolati, con una preoccupante segregazione rispetto alla popolazione locale.

Dove è stata?

A San Ferdinando, in Calabria, e a Borgo Mezzanone, nel Foggiano, i lavoratori vivono in rifugi di fortuna. Senza elettricità, acqua, smaltimento rifiuti, servizi igienici, assistenza sanitaria o protezione sociale.

Lei si è battuta contro l’apartheid. Cosa prova a vedere in Italia dei 'nuovi ghetti'?

Credo che rischino di alimentare tensione sociale, aumentando il razzismo e la xenofobia. Il problema è preoccupante: episodi come l’uccisione di Soumaila Sacko a Rosarno, il 2 giugno, o il presunto utilizzo di fucili ad aria compressa contro lavoratori indiani a Latina potrebbero aumentare, se non si presta attenzione nel far fronte all’integrazione sociale e nel porre fine all’impunità degli autori dei reati.

La condizione dei braccianti Sikh di Latina è fra quelle denunciate dal nostro giornale. Lei cosa ha riscontrato?

In quell’area ci sono circa 30mila lavoratori sikh di origine indiana. Molti sono soggetti a forme estreme di coercizione. Alcuni sono forzati ad assumere sostanze che migliorano le prestazioni, vietate dalla loro religione, in modo da poter lavorare 10-14 ore al giorno nei campi.

Fra le vessazioni che lei segnala, ci sono violenze sessuali. Dove e in danno di chi?

Donne rumene e bulgare sono vittime di sfruttamento nei campi e di tratta a fini sessuali. E a Latina, caporali e datori di lavoro forzano lavoratrici indiane a prestazioni sessuali. Le forme di coercizione vanno dalla violenza fisica e sessuale, al trattenimento di salari e documenti fino alle minacce personali o alle famiglie d’origine.

La condizione di 'irregolarità' facilita lo sfruttamento?

I migranti irregolari presentano un rischio maggiore di essere sfruttati: si trovano in una situazione più vulnerabile, guadagnano meno e non denunciano, per timore di essere arrestati o addirittura espulsi.

Ha percepito un clima di odio, di razzismo da parte degli italiani?

Per la mia esperienza, la gente comune non è razzista, è solidale e sa che chi arriva cerca solo di sopravvivere con un impiego onesto. Il problema sorge quando, insieme allo sfruttamento, si fomentano schemi di contrapposizione: 'loro e noi', 'sono qui per toglierci il lavoro'. Così l’odio monta.

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