sabato 5 giugno 2021
Una strage infinita che, per il giudice di Cassazione e docente di Diritto della Sicurezza sul lavoro alla Statale di Milano, comincia a diventare anche un problema di «sicurezza pubblica»
Il giudice Bruno Giordano

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A un mese dalla morte di Luana D’orazio, la giovane mamma di 22 anni straziata da un orditoio in un’azienda tessile di Prato, sul lavoro si continua a morire al ritmo di tre vittime al giorno. Una strage infinita che, per il giudice di Cassazione e docente di Diritto della Sicurezza sul lavoro alla Statale di Milano, Bruno Giordano, comincia a diventare anche un problema di «sicurezza pubblica».

In che senso?
È la grave carenza se non la totale mancanza di controlli a farmi dire che la prima vittima di questa situazione è la collettività. Pensiamo soltanto alla tragedia della funivia del Mottarone e a ciò che sta emergendo dall’inchiesta. Il nostro Paese sta pagando un prezzo altissimo alla mancanza di investimenti sui controlli.


Come di combatte questa battaglia per il lavoro buono, regolare e sicuro?
Questa è una “guerra” che si combatte soltanto attraverso la prevenzione. Materia affidata - dalla Riforma sanitaria del 1978 - alle Regioni, che hanno 21 regole diverse, a loro volta applicate da 106 Aziende sanitarie locali distribuite sull’intero territorio italiano, che sono, per definizione e mandato, appunto aziende sanitarie. Ma qui servono anche ingegneri, esperti di ergonomia e trasporti e tante altre professionalità. Così è davvero difficile fare prevenzione ed evitare che il nostro Paese conti un morto sul lavoro ogni otto ore e un ferito ogni 50 secondi.

Che cosa deve cambiare per arrestare questa mattanza quotidiana di padri, madri, figli e figlie che non tornano a casa dal lavoro?
È necessario avviare una vera politica economica della prevenzione, sostenendo in prima battuta le imprese efficienti, che lavorano secondo le regole e perseguendo quelle che, invece, non le rispettano finendo per fare concorrenza sleale alle prime.

Quanti soldi servirebbero per mettere in campo un progetto del genere?
Io non parlo di soldi ma di persone. Serve gente qualificata.

Basteranno i 2.100 nuovi ispettori annunciati dal ministro del Lavoro, Andrea Orlando?
Dopo dieci anni senza assunzioni questa è una boccata d’ossigeno salutare, ma la situazione resta grave. Attualmente, i dipendenti dell’Ispettorato nazionale del lavoro sono circa 4.600, ma soltanto duemila sono ispettori e appena 200 sono ispettori tecnici, abilitati ad effettuare i controlli sui macchinari. Questo è il quadro. Con le forze attualmente a disposizione, si riesce a controllare soltanto il 5% delle aziende, con un rapporto di un ispettore ogni 5mila imprese. Eppure, nel 2019 su 10mila aziende verificate, più di 8.500 non sono risultate in regola. Ma quante sfuggono ai controlli?

La carenza di ispettori è un problema di risorse economiche?
La prevenzione è una scelta di politica economica e non soltanto di politica sanitaria. Un tema che deve per forza rientrare nel Piano nazionale di ripresa e resilienza. Con una premessa doverosa: l’attività ispettiva rende di più di quanto costa.

Quanto di più?
Per rispondere mi rifaccio all’esperienza di Prato, dove nel 2013 sette operai morirono nel rogo di uno stabilimento tessile gestito da cinesi. Dopo quella strage, furono assunti 75 ispettori del lavoro e potenziati i controlli sul territorio. Ebbene: tre anni dopo la Regione Toscana ha incassato, come sanzioni e provvedimenti per la messa a norma di imprese irregolari, sei volte di più di quanto fossero “costati” i 75 ispettori. Con il risultato che tante imprese si erano messe in regola, migliaia di lavoratori erano emersi dal “nero” ed era finita la concorrenza sleale. È questo lo straordinario “effetto moltiplicatore” che si ha quando si investe in sicurezza sul lavoro. Che, come abbiamo visto, non va considerata alla voce “costi” ma è un investimento con ricadute positive per l’intera collettività.

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