domenica 3 maggio 2020
Il presidente dell'Associazione religiosa degli istituti socio–sanitari: la pandemia ha messo a nudo scelte inconcepibili fatte a riguardo del Sistema sanitario fin dal 2011. Si deve cambiare visuale
Padre Bebber

Padre Bebber - archivio

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«Abbiamo risposto con prontezza e generosità alla richiesta di aiuto delle autorità. Ma siamo stati lasciati soli ed esposti a una vera e propria “caccia alle streghe”». Padre Virginio Bebber, presidente dell’Aris, l’Associazione religiosa degli istituti socio–sanitari, con 257 strutture in tutta Italia, non usa mezzi termini per descrivere i sentimenti della realtà che rappresenta: «Amarezza e perplessità», sottolinea in riferimento alle vicende che hanno coinvolto alcune delle strutture associate, una delle quali, l’Istituto Palazzolo Don Gnocchi di Milano, sottoposta a un’inchiesta della magistratura, per la morte da coronavirus di numerosi anziani che vi risiedevano. «Ma ho fiducia che alla fine la verità verrà a galla», dice il religioso.

Padre Bebber, perché lei parla di amarezza e perplessità?

Amarezza nel constatare quanto siano costate in termini di vite umane decisioni che non avrebbero dovuto essere prese. Ad esempio quella di trasformare in poco tempo operatori sanitari espertissimi nell’assistenza agli an- ziani pluripatologici in infermieri addetti al trattamento del Covid–19. Perplessità, perché mi sembra che le nostre strutture, parlo di quelle religiose, siano diventate un facile bersaglio di interessi politici ed economici contrapposti, non ultimi certi studi professionistici che portano avanti il dubbio business dei rimborsi propagandati come “facili”.

In che senso lei afferma che le Rsa sono state lasciate sole?

Ci erano stati assicurati materiali adeguati almeno a proteggere operatori e pazienti, ma non abbiamo ricevuto nulla se non dopo settimane di attese e di solleciti inascoltati. Ci siamo arrangiati con quel poco che avevamo in magazzino, perché l’ingente quantitativo che avevamo ordinato privatamente all’estero, ci è stato sequestrato alla dogana e distribuito agli ospedali.

E questo è avvenuto anche all’Istituto Palazzolo–Don Gnocchi di Milano?

Da quanto mi risulta il Palazzolo non ha ricevuto mascherine da chi avrebbe dovuto fornirle. Per di più l’Ufficio acquisti della Fondazione, come accaduto in altre realtà, ha visto andare inevasi tutti gli ordinativi. Perciò hanno distribuito ciò che avevano, in proporzione a ciascun reparto. Gli altri dpi sono stati messi sempre a disposizione con regolarità. Ci sono documenti che lo dimostrano, ora al vaglio della Procura della Repubblica.

Ma è vero che da parte dell’Istituto è stato chiesto al personale di non indossare le mascherine per non spaventare gli anziani?

È una delle prime cose che ho chiesto al Palazzolo e mi hanno assicurato che non c’è nulla di vero. Mi hanno mostrato istruzioni operative, verbali quotidiani di unità di crisi, centrali e territoriali, e comunicazioni al personale. E posso dire che non vi è alcuna traccia di tale circostanza.

Eppure alcuni servizi televisivi hanno mostrato cartelli che avevano questa indicazione.

Fra fine febbraio e inizio marzo è stato richiesto agli operatori di razionalizzare l’uso delle mascherine, data la difficoltà di approvvigionamento. Il tutto, però, sempre in linea con le linee–guida di Oms e Iss. Se poi qualcuno, in autonomia, ha ritenuto di comunicare diversamente con gli operatori, è circostanza che non sappiamo e pertanto non possiamo né confermare né smentire.

Al di là di questo, è lecito chiedersi se se sia stato fatto veramente tutto quanto era possibile per evitare il contagio.

Vorrei ricordare che i responsabili del Palazzolo hanno chiuso l’accesso ai parenti già a partire dal week end del 29 febbraio–1° marzo (erano previsti almeno 2.400 visitatori), anticipando quanto poi emanato dal Dpcm del 4 marzo 2020. Sono stati anche chiusi i servizi non essenziali ed è stata allestita un’area della struttura con 10 posti letto, per accogliere, in caso di necessità, eventuali operatori contagiati. Tuttavia, di fronte a un virus subdolo come il coronavirus, che in Lombardia ha avuto la sua massima diffusione, è stato purtroppo impossibile mantenere l’infezione fuori dall’Istituto, tenuto altresì conto del grande numero di operatori e sanitari che vi lavorano. Ci risulta peraltro che anche in grandi ospedali pubblici il veicolo del contagio siano stati non di rado operatori infettati. Anche al Palazzolo sono stati individuati almeno 50 lavoratori portatori di infezione asintomatici, che sono stati messi in quarantena.

Ritenete dunque di non aver fatto proprio alcun errore?

Forse l’errore, se c’è stato, sta nell’aver accolto l’invito delle autorità a prendere i malati Covid anche nelle nostre strutture meno indicate per l’emergenza. Voglio ricordare, però, che ancor prima che ce lo chiedessero abbiamo trasformato l’organizzazione di ospedali e case di cura per adattarle alle nuove necessità e che abbiamo messo a disposizione persino strutture alberghiere per i convalescenti.

Che cosa deve insegnare il coronavirus?

La pandemia ha messo a nudo scelte inconcepibili fatte a riguardo del Ssn fin dal 2011. Si deve cambiare visuale e capire che in un percorso ben regolamentato e con una gestione fondata sulla correttezza e la trasparenza la sanità non è un costo, ma una risorsa. Aggiungo che secondo recenti studi (cito un’indagine di “Valori, notizie di finanza etica e sostenibile”), la sanità privata non profit, cioè quella gestita da enti e congregazioni religiose secondo obiettivi fissati dalla Cei, alla collettività nazionale costa molto meno di quella pubblica.

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