giovedì 25 luglio 2019
L'Autorità ha inviato ieri al governo una proposta di riforma dell'intero settore. Ma la stretta sulla comunicazione commerciale non è abbastanza
L'Agcom batte un colpo, ma non basta. La pubblicità non si ferma
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Una proposta di riforma che somiglia molto a una “foglia di fico”. L’Agcom batte un colpo, ma non basta. Dopo la pubblicazione delle linee guida sulla pubblicità all’azzardo – che, come rilevato da Avvenire, vanificano il divieto imposto dal decreto dignità – l’Autorità ha trasmesso ieri al governo alcune considerazioni sulla materia. L’organismo di garanzia si è detto intenzionato «a promuovere una riforma complessiva» del settore «che assicuri la più effettiva tutela del consumatore, in un quadro di rafforzato contrasto delle pratiche di gioco illegale».

La segnalazione richiama inoltre l’attenzione su alcuni profili di particolare rilievo: «assicurare la conoscenza e promuovere la consapevolezza del gioco legale» e «colpire selettivamente le attività tipicamente d’azzardo maggiormente soggette a compulsività e meno controllabili», oltre a «prevedere norme più stringenti per la pubblicità». Tralasciando il fatto che, come sottolineato più volte da questo giornale, non esistono “giochi” d’azzardo più «controllabili e meno soggetti a compulsività » di altri, la questione di fondo resta irrisolta. L’Autorità parla infatti di criteri più stringenti, a fronte di un decreto che nella sua formulazione è assolutamente chiaro: «È vietata qualsiasi forma di pubblicità, anche indiretta relativa a giochi o scommesse con vincite di denaro». Da notare poi che l’Agcom sottolinea come il processo di consultazione pubblica avviato allo scopo di definire gli indirizzi interpretativi della norma abbia coinvolto tutti i soggetti che ne hanno fatto richiesta. Ma la Consulta Nazionale Antiusura e il testo stesso delle linee guida sembrerebbero sconfessare questa affermazione. Il problema, dunque, resta.

«Quello dello Stato è un comportamento per lo meno schizofrenico: da una parte promuove iniziative imprenditoriali e dall’altra provoca delle situazioni di forte precarietà delle quali deve comunque farsi carico», commenta il direttore della Caritas ambrosiana, Luciano Gualzetti. «Occorre rendersi conto che le entrate garantite da questo settore vengono sperperate per riparare i danni sociali, economici e sanitari che ne derivano. Affrontiamo quotidianamente le ricadute drammatiche sulle persone che si indebitano e cadono in dipendenza – continua –. E i dati sono sconfortanti perché nonostante tutte le denunce e le azioni preventive, la spesa del gioco aumenta». Un circolo vizioso al quale si potrebbe cominciare a porre rimedio con la proposta avanzata dal movimento Slot Mob: rivedere il sistema delle concessioni: «È chiaro che su questo fronte bisogna fare squadra – dice Carlo Cefaloni di Slot Mob –. Ma non possiamo semplicemente giocare di rimessa. L’obiettivo politico è quello di ridiscutere l’intero sistema. Le concessioni non possono essere date a grandi multinazionali la cui unica intenzione è guadagnare. Non molleranno mai l’osso, l’unica soluzione è toglierglielo. Bisogna imporre una gestione responsabile e quindi disincentivante. Altrimenti sarà sempre una lotta di retroguardia».

Ma il problema non sta solo nella pubblicità e nelle concessioni. La Consulta Nazionale Antiusura ha avanzato altre importanti proposte, tra le quali la costruzione di un paradigma efficiente di presa in carico a livello sanitario dell’azzardopatia. Ma anche in questo caso la strada sembra in salita: «Siamo in un memento delicato: stanno arrivando fondi e finanziamenti e vengono attivate iniziative coerenti con il piano inviato dalle Regioni e approvato dal governo – ragiona Daniela Capitanucci dell’associazione Azzardo e nuove dipendenze (And) –. Ma c’è un problema all’orgine: non sempre chi valuta la qualità e l’appropriatezza di queste misure, o chi le scrive, ha maturato le competenze necessarie per farlo. Questo settore è rimasto per lungo tempo di nicchia. Chi ha costruito le competenze è un manipolo di poche persone: medici, psicologi, sociologi, avvocati e giornalisti che all’inizio degli anni Duemila si è appassionato a un tema che non rendeva un soldo. Il paradosso è che chi ora ha la possibilità di predisporre piani regionali non se ne è mai occupato».

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