mercoledì 1 luglio 2020
L’arcivescovo di Gorizia: ogni diocesi oggi ha in media circa 900 persone in più da sostenere concretamente Monsignor Redaelli Istantanee degli aiuti ai tempi del coronavirus
Monsignor Redaelli

Monsignor Redaelli - .

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«Il lavoro è la nostra prima preoccupazione nel dopo lockdown ». Con l’arcivescovo di Gorizia, Carlo Roberto Maria Redaelli, presidente di Caritas italiana, rileggendo i dati del secondo monitoraggio nazionale, proviamo a delineare un bilancio di questi mesi di chiusure e parziali riaperture. «In alcune diocesi sono diminuite le richieste di aiuto, è un buon segno. Ma con la graduale ripresa delle attività aumenta la necessità di trovare un’occupazione. Non è solo un problema delle famiglie, ma anche delle piccole imprese. Per la prima volta in molte Caritas si sono presentati anche i piccoli artigiani che hanno chiuso l’attività perché non vengono pagati dai clienti».

E la distribuzione degli aiuti alimentari?
La domanda resta alta, ma va detto che accanto ai pacchi viveri della Caritas ci sono stati gli aiuti del governo, della Protezione civile e dei Comuni.

Chi sono i nuovi poveri?
Chi non ha ricevuto la cassa integrazione o il bonus per gli autonomi, quelli che verranno licenziati a settembre perché l’azienda ha chiuso. Chi se la cavava con lavoretti precari è in grossa difficoltà e si fa fatica ad aiutarli anche con i fondi diocesani, perché diverse Caritas per erogarli chiedono una documentazione che attesti la perdita del lavoro. Ma chi era irregolare non può produrla. Dopo il lockdown, pur con dati parziali e sottostimati, ogni diocesi ha in media circa 900 persone in più da sostenere.

Emergono altre difficoltà dal monitoraggio?
Segnalo l’aumento dei problemi legati alla mancanza di alloggio, soprattutto per i senza dimora, e i primi casi di usura che stanno strangolando chi è rimasto senza credito e che purtroppo avevamo preannunciato. E la povertà digitale che riguarda gli alunni e gli studenti privi di tablet e pc per la didattica a distanza come gli anziani. Insegnare ai nonni a usare lo smartphone e strumenti tecnologici facili li aiuta a tenere i contatti con nipoti e figli. Posso garantire che le Caritas, che non hanno chiuso per la pandemia, non chiuderanno neppure per ferie.

Sono aumentati in percentuale gli italiani in difficoltà rispetto agli stranieri. Che ne pensa?
È una novità preoccupante. Gli stranieri sono sostanzialmente quelli aiutati anche prima e spesso stavano in strutture a loro dedicate. Mentre ci sono purtroppo in media tra gli 800 e i 900 nuovi poveri per diocesi. Gli impoverimenti degli italiani sono dovuti soprattutto a disoccupazione e a problemi di credito.

Come accompagneranno le Caritas diocesane vecchie e nuove povertà?
Le Caritas non devono mai essere solo un ente erogatore. Questa meravigliosa intuizione di Paolo VI, che l’anno prossimo festeggerà il mezzo secolo, deve conservare una funzione pedagogica. Il tentativo è sempre quello – sia nell’impiego dei fondi sia nell’attivazione di nuovi servizi – di avere sempre attenzione al perché dei problemi e di mettere al centro la persona. I centri Caritas si chiamano 'di ascolto' proprio per questo. In particolare, in base all’andamento della pandemia e dell’emergenza, l’obiettivo è puntare al reinserimento nel mondo del lavoro, ma sappiamo che sarà complesso. Occorrerebbe una maggiore flessibilità. Qualche anno fa i voucher ad esempio favorirono gli inserimenti lavorativi. E dal punto di vista pastorale la Caritas non vuole deleghe. I nuovi poveri vanno individuati con il passaparola di vicinato, con una presa in carico e una segnalazione alla parrocchia da parte del vicino di casa. Questo può aiutare la carità diffusa, mentre la conoscenza specifica dei casi da parte delle comunità cristiane favorisce la sburocratizzazione dei nostri servizi e la corretta destinazione delle risorse. Anche questo è farsi carico del prossimo.

Ci aiuterà questa esperienza a capire cosa è davvero essenziale?
Penso di sì. Ad esempio a capire l’essenzialità delle relazioni. In questi giorni nel parco del palazzo arcivescovile di Gorizia è partito un centro estivo e, vedendo i ragazzi, riflettevo su una ricerca dell’Università di Udine sulla sofferenza relazionale di giovani e anziani dovuta all’isolamento. Non è quasi stata affrontata, dobbiamo ricordarci di loro.

Resteranno i molti giovani che hanno sostituito i volontari 'over 65' rimasti a casa precauzionalmente?
Credo di sì, i segnali sono incoraggianti. Il loro apporto è stato positivo, sotto la mascherina hanno fatto intravvedere il sorriso mentre consegnavano magari un pasto. È importante lasciare spazio alla loro inventiva, sanno fare cose belle. Ricordo anche il sacrificio di 20 volontari e operatori Caritas morti e i 95 ricoverati in ospedale durante la pandemia.

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