sabato 17 luglio 2021
Il cammino di speranza
Papà Abdul, 36 anni e mamma Haram, 31 anni, con i cinque figli da 3 a 13 anni

Papà Abdul, 36 anni e mamma Haram, 31 anni, con i cinque figli da 3 a 13 anni

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Dalla fuga dal Darfur e dai campi profughi in Niger a un paesino campano alle falde dei monti Alburni. È il cammino di speranza di una famiglia del Sudan arrivata in Italia il 22 giugno con i corridoi umanitari promossi dalla Cei e ospitata dalla Caritas diocesana di Teggiano Policastro e dalla parrocchia di San Giorgio nel comune dì Postiglione. Papà Abdul, 36 anni e mamma Haram, 31 anni, e cinque figli da 3 a 13 anni, tre maschi e due femmine. Bambini che non avevano mai avuto una vita normale, una casa vera, una scuola. Ora qui hanno una casa, amici con cui giocano a pallone in piazzetta, divorano i cartoni in tv. E hanno imparato bene due parole 'grazie' e 'bicicletta' che vorrebbero tanto avere. «Le stiamo sistemando», assicura Veronica, tutor del progetto di accoglienza.

Abdul ci racconta la storia, durissima, della sua famiglia. Sono originari del Darfur, regione occidentale del Sudan. Nel 2004 devono fuggire a nord per motivi di persecuzione e finiscono in un campo profughi. Nel 2011 lui va in Libia per trovare un lavoro. Ci resta un anno ma con scarsi risultati. E torna dalla famiglia. Ci riprova nel 2017 ma viene preso da una milizia armata e sbattuto in carcere a Sabha, dove resta per tre mesi, viene picchiato finché la famiglia paga per la sua liberazione. Tenta anche due volte il viaggio in barca verso l’Italia. «Ma i libici ci hanno preso e riportati indietro», racconta. Così raggiunge nuovamente la famiglia, ormai cresciuta. Nel 2018 passano in Niger, prima in un campo profughi ad Agadez e poi in un campo dell’Unhcr a Niamey, la capitale. Da qui riescono finalmente a partire grazie al corridoio umanitario. «Voglio ringraziare la Chiesa e la Caritas – ci ripete più volte – perché ci hanno permesso di venire qui. Grazie a loro l’Italia è un Paese sicuro, che salva le persone». Ora, aggiunge, «la mia maggiore preoccupazione è il futuro dei miei figli e quello di mia madre e di mio fratello malato che sono rimasti in Sudan». Anche mamma Haram ci spiega che «l’unico mio desiderio era uscire da quel campo per fare una vita migliore, stabile. Grazie davvero».

Intanto la piccola Manara, 3 anni, piange. Ha fame, ma non vuole la banana che la mamma le dà e neanche i biscotti. Così Veronica manda Maamar, 13 anni, a comprare del pane. Sa già come fare e al forno li conoscono. Perché questo è un paese accogliente. Tre anni fa, sempre coi corridoi umanitari, arrivò una famiglia eritrea, una mamma con 4 figli. Terminato il percorso di integrazione due ragazzi sono andati a Bologna, mentre la mamma Tsige coi più piccoli è ancora qui e lavora per la cooperativa della parrocchia che gestisce una casa per anziani. Nel paese nessuna protesta, nessuna contestazione per la presenza degli immigrati. «Solo il giorno dell’inaugurazione della casa per minori non accompagnati, il 27 giugno 2016 – ricorda il parroco don Martino, direttore della Caritas diocesana – sono venuti da fuori alcuni esponenti di Forza nuova a contestare l’apertura e in particolare l’uso dei fondi dell’8xmille».

E proprio uno dei minori, Jallow del Gambia, grazie a una borsa lavoro della Diocesi tramite la Caritas, ha iniziato a fare il pizzaiolo, in un bel locale del paese, ed è talmente bravo che ha poi avuto un contratto a tempo indeterminato. Ma visto che non sa stare fermo, fa anche l’imbianchino. Anche Abdul e Haram vogliono lavorare. Lui ha fatto l’autista, il meccanico e l’agricoltore. Lei è molto brava a cucire. Per ora come i figli stanno seguendo un corso di italiano e matematica, ma si sta già cercando un lavoro per entrambi. Mentre a settembre i bambini faranno un piccolo esame per vedere in quale classe inserirli. Intanto Maamar è tornato col pane e Mnara con la sorella Moura, 5 anni, si siede per terra per mangiare, tutta soddisfatta, pane e lenticchie. «Accettano con gioia qualunque cosa gli dai, si accontentato, non pretendono, aspettano e ringraziano», sottolinea Veronica. E aggiunge: «Ora si devono stabilizzare, poi piano piano comunicheremo. Il più grande capisce già l’italiano. Lui e gli altri bambini sono delle spugne». Anche Abdul ha imparato una frase. 'Ti voglio bene'. E ha capito molto bene cosa significa.

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