giovedì 28 settembre 2017
Le indagini della Guardia di Finanza di Tarquinia hanno svelato un sistema che non prevedeva il diritto alle ferie e alla malattia e sottopagava i lavoratori. Donna sequestrata per non denunciare
La fabbrica che sfruttava settanta operai
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«Speriamo che altri lavoratori si facciano avanti e non abbiano paura di segnalare lo sfruttamento. Va ripristinata la legalità perché c’è chi si arricchisce e chi si deve accontentare di pochi euro al giorno per poter fare poi la spesa al supermercato». Così il giovane capitano Antonio Petti, comandante della compagnia della Guardia di Finanza di Tarquinia, commenta l’operazione, coordinata dalla Procura di Civitavecchia, che ieri ha portato all’arresto di quattro imprenditori, e alla denuncia di un consulente del lavoro, con accuse gravissime: estorsione, sequestro di persona, sfruttamento e minacce ai danni di lavoratori, truffa aggravata ai danni dell’Inps. Circa 70 lavoratori, quasi tutti italiani, sono stati costretti per ben nove anni a svolgere attività non previste dal contratto sottoscritto, percependo una misera retribuzione e subendo la lesione di diritti primari, quali il diritto alle ferie e alla malattia retribuita, al Tfr e alla tredicesima, e perfino il bonus di 80 euro, il tutto «sotto la costante minaccia, sovente esplicita e violenta, di ripercussioni o di licenziamento». Soprattutto quando reclamavano i propri diritti. Minacce che sono arrivate fino al sequestro di un’operaia che, spiega l’ufficiale, «dovevamo sentire e ci doveva anche portare del materiale probatorio in suo possesso. Alla fine del turno di lavoro le hanno offerto un passaggio per tornare a casa, ma poi l’hanno condotta in una casa di campagna, le hanno tolto quel materiale e minacciata per convincerla a non venire più da noi».
Ad agevolare l’inchiesta è stata la recente legge sul caporalato. «Una norma molto preziosa – sottolinea l’ufficiale – che va a colmare un vuoto. Mentre prima era solo il caporale ad essere perseguito, ora anche il datore di lavoro che sfrutta i dipendenti è soggetto a una legge molto severa». La novità di questa operazione è che gli sfruttati sono tutti italiani e dipendenti di un impresa metalmeccanica che operava per un’azienda molto più grande. «Non ci risultano responsabilità del committente, anzi nei contratti c’erano degli impegni sulla tutela dei lavoratori». Invece quando erano assunti gli veniva spiegato che avrebbero dovuto sottoscrivere un contratto par time ma avrebbero lavorato dalle 8 alle 10 ore al giorno, compreso il sabato malgrado per i metalmeccanici sia considerato giorno di riposo. Così alla fine la retribuzione oraria era di circa 3,90 a fronte di un importo previsto non inferiore a 8,28. Ancor meno per le ore straordinarie: 2 euro rispetto a 12,42. Se non addirittura lavoro gratis «per riparare cattivi assemblaggi o per il mancato raggiungimento del numero minimo giornaliero dei pezzi previsti».
Inoltre ogni 2-3 anni i lavoratori venivano licenziati da una ditta e assunti da un’altra, in realtà degli stessi imprenditori. Non potevano protestare essendo stati costretti a firmare, al momento dell’assunzione, una lettera di dimissioni in bianco. E dovevano firmare anche la liberatoria che avevano già ricevuto il Tfr e non avevano più nulla da pretendere. Altrimenti non li avrebbero riassunti. In questo modo, oltretutto, gli imprenditori beneficiavano illegalmente delle agevolazioni contributive previste per le nuove assunzioni. Che, in realtà, nuove non erano. Bastava un’autocertificazione nella quale affermavano che l’operaio non aveva lavorato per loro nei sei mesi precedenti.
«Alcuni capivano di essere sfruttati, ma avevano bisogno di lavorare – ricorda il capitano –. Avevano molto timore a parlare, perché il bene primario era conservare il posto per sopravvivere. Siamo riusciti a convincerli grazie allo sviluppo di alcune segnalazioni e al ritrovamento di alcuni documenti che confermavano lo sfruttamento. Messi di fronte all’evidenza hanno dovuto ammettere». E ora? «Con la nomina di un amministratore giudiziario abbiamo salvato tutti i dipendenti perché altrimenti con l’arresto dell’imprenditore sarebbero rimasti tutti a casa. Invece così riusciamo a garantire la prosecuzione dell’attività e il ripristino dei contratti secondo la legge. Ora chi lavora 8 ore viene pagato per otto ore e non part time».

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