venerdì 27 agosto 2021
La piccola è nata a Sulmona poco dopo l'arrivo in Italia. Ma non potrà conoscere il padre ucciso dai taleban durante la conquista della capitale afghana
Famiglie afghane che ce l'hanno fatta a fuggire all'estero

Famiglie afghane che ce l'hanno fatta a fuggire all'estero - Ansa

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C’era a Kabul, nei giorni della conquista talebana, ancora nel ventre della madre una bambina. Il suo tempo era quasi compiuto, pochi giorni al parto. La bambina aveva una casa, un padre e una madre: e in pace dormiva, nel buio del suo seno. Ma, d’improvviso, grida, urla, spari, e il cuore della madre che di colpo imbizzarrisce: quel battito che accompagna e ordina la vita del nascituro, e lo culla, quando procede regolare.

Quel cuore di donna, ora, pazzo di paura: la casa data alle fiamme dai taleban, e lei che assieme al marito fuggiva, braccata – la bambina nel ventre sobbalzava nella corsa, mentre il fiato alla gestante mancava. Inseguiti, incalzati come prede, i due disperatamente mirano a raggiungere l’aeroporto. Anche lì urla, spari, una calca che travolge la donna incinta. Nel limbo del grembo, ignara di tutto, la bambina percepisce attorno l’acre sapore della paura? Minacce ancora e, infine, uno sparo. Il cuore della madre, Bibi, ora quasi si ferma, il corpo è scosso dal pianto, mentre si china sul marito morto. Il dolore pervade ogni sua fibra, non è possibile che non si allarghi anche nel grembo. Nel dolore forse si fa amaro, il sangue che nutre il nascituro.

Poi, d’improvviso, la calma. Chissà come Bibi viene imbarcata su un aereo militare. Magari, sfinita, nel lungo volo dorme. Il cuore, ora, batte di nuovo regolare. E poi, poco dopo l’arrivo nella base di Roccaraso, in Abruzzo, partono le doglie. I mediatori della Croce Rossa confortano la partoriente nella sua lingua, mentre l’ambulanza corre verso l’ospedale di Sulmona. Un ospedale in pace, lenzuola candide, infermiere gentili – un ospedale italiano.

Il travaglio è laborioso. Le ore scorrono, le fitte insostenibili si alternano al ricordo delle fiamme, della fuga, del marito a terra nel sangue. Ma, finalmente, è l’ora: con un vagito acuto Hina respira la prima aria di questo mondo. È sana, è bella. Forse, per la prima volta dopo giorni tremendi, sua madre nell’abbracciarla sorride. Hina, bambina afghana orfana prima di nascere, una che nove mesi fa non c’era. Nel tumulto e nel sangue di Kabul, un granello di sabbia, un frammento di vita che silenziosamente cresceva. Suo padre era ritenuto un collaboratore degli occidentali, i taleban erano ormai alle soglie della città. Quei colpi furiosi alla porta, il fuoco che divampava, la goffa corsa di una donna gravida al nono mese, braccata. Chi avrebbe detto che la piccola Hina ce l’avrebbe fatta?

Ben arrivata, bambina, in Italia. Qui, attaccata al seno di tua madre, ritroverai, ora calmo, il battito inconfondibile del suo cuore. Qui, bambina, sei in un Paese in pace (noi non ci facciamo più caso, noi non ne siamo più grati). Sei nata, Hina, come sperando contro ogni speranza: come un segno, e quasi un miracolo. Sei venuta da un epicentro della violenza e del male, sei arrivata intatta, hai visto la luce, hai gridato il tuo prepotente primo pianto. Fermiamoci ad ascoltarlo, quel tuo grido. Il frammento da nulla, traversato l’inferno, si è fatto bambina. Il male su questa terra è immenso, eppure la vita è un filo più tenace. Risorge, ostinata, da ogni rovina, e agli occhi di ogni neonato il mondo è nuovo, candido. Con ogni bambino, il mondo rinasce.

Madre e figlia, afghane, donne e profughe, dormono abbracciate fra le lenzuola di un letto d’ospedale italiano. Sognano, forse? Un sogno lieto e impossibile, una cosa mai vista nemmeno dalla madre, Bibi, in un Afghanistan da quarant’ anni in guerra: sognano di poter uscire e andare a passeggio, libere, e rincasare, e sedersi a tavola e mangiare. Che sogno assurdo: sperano semplicemente quella pace di cui noi, a 76 anni dal 1945, nemmeno ci accorgiamo.

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