sabato 14 marzo 2020
Luisa Pavia (CAF MIlano) e Ugo Bressanello (Domus de Luna Cagliari): "Nelle strutture che ospitano i minori fuori famiglia contatti vietati. Non si entra e non si esce. Difficoltà enormi"
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Minori - Archivio Ansa

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Ci sono alcune “famiglie” in cui la forzata vacanza di questi giorni innesca problemi più complessi e su più vasta scala rispetto alla maggior parte degli altri nuclei familiari. Come gestire il tempo senza scatenare baruffe rischiose o innescare altri comportamenti a rischio quando ci sono dieci o più bambini che vivono insieme? E quando, soprattutto, la condizione abitativa non dipende da un capriccio di alcune mamme ignare delle disposizioni sanitarie ma dalla “normalità” della vita quotidiana. Nelle strutture che ospitano bambini e ragazzi che non possono più vivere nelle proprie famiglie per decisione dei tribunali, l’emergenza coronavirus determina difficoltà di cui non si tiene abbastanza conto. Dalle strutture non si esce per andare a scuola, ma neppure si può entrare. Accesso permesso, com’è inevitabile, solo agli educatori che si prendono cura dei ragazzi e che quindi devono adottare una serie di cautele infinite per evitare di diffondere il contagio. Dall’altro ieri il Comune di Milano ha deciso di sospendere i nuovi ingressi. E anche questa è una scelta comprensibile e urgente sotto il profilo sanitario. Ma esistono situazioni altrettanto urgenti che imporrebbero, per maltrattamenti gravi, violenza assistita, abusi, l’allontanamento immediato di un bambino dalla famiglia d’origine. Come fare in questi casi? Luisa Pavia, responsabile delle comunità Caf di Milano, da quarant’anni impegnata nell’assistenza ai minori senza famiglia, allarga le braccia. «Proprio l’altro giorno avremmo dovuto accogliere due bambini di origini cinesi nelle nostre comunità di via Orlando, ma il Comune ha dato disposizione di sospendere gli inserimenti». Il Caf a Milano, il cui presidente è lo psichiatra Gustavo Pietropolli Charmet, ha cinque comunità. Tre per bambini dai 3 ai 12 anni. Due per i più grandi, dai 13 ai 18 anni. In tutto 45 minori. La maggior parte proviene da famiglie italiane. Per gestire questi ragazzi che hanno alle spalle vissuti pesanti di maltrattamenti, violenze, abbandono e – come spiega l’esperta – sempre più spesso abusi sessuali, servono in tempi normali sette educatori per ogni turno in ciascuna comunità.

Ma da quando le scuole sono chiuse gli operatori devono essere presenti 24 ore su 24. «E dobbiamo assicurare loro la rotazione adeguata – riprende Luisa Pavia – perché si tratta di un’attività che richiede attenzione, pazienza, creatività. Non possiamo sottoporre i nostri “angeli” a un impegno così logorante senza assicurare le pause necessarie».

Un aiuto è arrivato dalla chiusura dei vari centri diurni sempre gestiti dal Caf, che ha permesso di spostare le operatrici nelle comunità. Ma da quando è scoppiata l’emergenza sanitaria sono state sospesi anche gli incontri con gli psicologi e con gli altri specialisti il cui intervento è fondamentale per gestire le ferite che questi ragazzi portano nel cuore. Bloccati da due settimane poi gli incontri protetti con i genitori, quelli almeno autorizzati dal tribunale. E anche questo rischia di rappresentare per alcuni ragazzi un fattore di stress non semplice da gestire. Sospeso infine l’accesso anche ai volontari, una quarantina di persone sulle cinque comunità, presenze comunque utili per offrire agli operatori un po’ di respiro.

«In quarant’anni di lavoro con i minori – riprende Pavia – non mi era mai capitato di gestire una situazione simile. Proprio in un momento difficile come questo...». Il riferimento evidente è al caso Bibbiano che ha gettato sulle comunità per minori un’ombra di sospetto. Qui l’opinione dei responsabili del Caf, come di tutte le comunità – la maggior parte per fortuna – che lavorano onestamente, è chiara. Chi ha sbagliato dovrà rispondere dei reati commessi, ma le strutture d’accoglienza per minori che operano in modo trasparente sotto il profilo educativo e fiscale, vanno sostenute con interventi anche legislativi finalizzati a sostenerne l’attività.

«Per ogni ragazzo il Comune di Milano versa 80 euro al giorno. I costi vivi – sottolinea l’esperta – che comprendono gli stipendi degli operatori, alimentazione, vestiario, cure mediche, manutenzione ordinaria delle strutture e tanto altro, arrivano a 150. Non potremmo andare avanti se non ci fosse la raccolta fondi e tante altre attività promozionali e di charity che però quest’anno stanno saltando tutte. E quando si ripartirà, con tutte le proprietà facilmente prevedibili, non sarà facile convogliare sui minori l’interesse dei donatori. Ma loro sono il futuro della nostra società. Non dimentichiamolo ».

Fuori Milano, i problemi, le attese e le preoccupazioni sono gli stessi. Nelle strutture d’accoglienza per minori – oltre 3.300, ma gli ultimi dati disponibili si riferiscono al 2015 – si vive un’emergenza costante che il caso coronavirus ha solo aggravato. Lo conferma Ugo Bressanello, presidente della Fondazione Domus de Luna, che gestisce quattro comunità nel Sud della Sardegna, ma ha avviato attività anche a Roma, Sicilia e Abruzzo. Complessivamente ospita 200 minori e alcune decine di madri sole. Anche per tutti loro si sono alzate le barriere con il mondo esterno, costringendo i circa 30 operatori a turni straordinari che non potranno proseguire molto a lungo. Bressanello, già vicepresidente di Tiscali, nel 2004 aveva deciso di prendersi un anno sabbatico, dopo aver adottato un bambino, per dedicarsi al mondo dei minori. Non ha più smesso. La fantasia imprenditoriale applicata al sociale gli ha permesso di mettere in piedi iniziative curiose, come la “Locanda dei buoni e cattivi”, un ristorante in cui persone con grave disagio e fragilità c’erano il proprio riscatto, o come Exmè, mercato abbandonato alla periferia di Cagliari, trasformato da area si spaccio ad agorà per manifestazione di musica e cultura. «Noi andiamo avanti ma – conferma – il mondo dei minori fuori famiglia non interessa a nessuno. Quando sarà passata questa emergenza dobbiamo unire le forze per farci ascoltare. Cosa cambiare? Ci sarebbe tanto fare. Per esempio, perché le comunità che conoscono bene i bambini non possono essere ascoltate quando si tratta di decidere l’affidamento delle famiglie affidatarie? ». © RIPRODUZIONE RISERVATA

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