venerdì 30 aprile 2021
L’economista: molto dipenderà però anche da come si faranno le riforme di ammortizzatori e politiche attive. Sì alla flessibilità sui contratti a termine
Andrea Garnero

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La ripresa dell’occupazione ci sarà e potrebbe essere significativa per la spinta dei piani nazionali del Next generation Eu. Ma più ancora degli investimenti, in Italia conterà il "come" si faranno le riforme. È la valutazione di Andrea Garnero, economista al dipartimento occupazione e affari sociali dell’Ocse.

Abbiamo già registrato una perdita di quasi un milione di occupati. Le previsioni più fosche parlano di 2 milioni di posti in meno a fine anno. È uno scenario realistico?

Non sarei così pessimista. Ci sono diversi fattori che influenzeranno la ripresa, a cominciare dall’evoluzione della pandemia e della campagna vaccinale. Soprattutto conteranno gli effetti delle misure politiche dei diversi piani nazionali di ripresa e resilienza in tutta Europa e il forte impulso imposto all’economia americana. Certo poi, da noi, occorrerà valutare gli impatti dello sblocco dei licenziamenti. E soprattutto se verrà mantenuta una politica espansiva del credito, che ha evitato molti fallimenti di imprese.

Nel Pnrr presentato dal governo si ipotizzano 750mila posti di lavoro aggiuntivi. Non è un risultato un po’ modesto?

Devo dire che quella stima non è molto chiara, non si comprende se è solo l’impatto diretto delle misure mese in campo. Penso infatti che con una ripresa prevista dall’Ocse al +4,1% nel 2021 e + 4% nel ’22 la crescita dell’occupazione complessiva dovrebbe essere maggiore. Anche se il processo di crescita non è immediato né scontato, perché non bastano neppure gli investimenti se non ci sono imprese pronte per compiere determinati lavori o se queste non trovano in fretta i lavoratori che gli sono necessari.

Una maggiore flessibilità sui contratti a tempo determinato può essere utile o rischiamo di rilanciare la precarietà?

Dobbiamo ragionare nella difficile situazione data. La precarietà deriva da un insieme di fattori che non sono solo la tipologia contrattuale. Rispetto ai vincoli rigidi previsti dal decreto Dignità, oggi ha senso lasciare la maggiore flessibilità già introdotta e semmai ipotizzarne un ampliamento. Confermerei invece le addizionali economiche che servono a contenere gli abusi.

Come riformare gli ammortizzatori sociali?

Difficile trovare la soluzione perfetta. Certo ora esistono molte diseguaglianze tra settori, tipologie di imprese e di lavoratori; la cassa integrazione ha tetti troppo bassi; la Naspi dà scarsa copertura a una parte dei disoccupati. Occorre un sistema maggiormente universale, omogeneo, che possibilmente sia anche modulare, la cui copertura cioè possa essere ampliata nei periodi di crisi e ristretta in quelli di ripresa.

Le politiche attive vengono spesso evocate come la panacea di tutti i mali, ma come accrescere davvero l’occupabilità delle persone?

In una visione macro, i fabbisogni delle imprese e l’evoluzione del mercato vanno studiati per poter riqualificare e ricollocare i disoccupati nei settori con carenza di lavoratori. Ma c’è una dimensione micro, quella della singola persona, in cui la prima necessità è quella di una vera presa in carico. Chi fatica a trovare lavoro deve essere anzitutto ascoltato. Ne vanno compresi punti di debolezza e potenzialità. Quindi va eventualmente indirizzato verso una formazione specifica o va compreso di quali altri interventi ha necessità, perché ogni disoccupato è bisognoso a modo suo. In questo senso il successo delle politiche attive non è misurabile solo in termini di collocamenti, ma di riattivazione e maggiore occupabilità delle persone.

Ma gli investimenti ipotizzati nel Pnrr sono sufficienti, vanno nella direzione giusta?

Sinceramente, stento ancora a comprendere i motivi per cui questo Piano dovrebbe fare la differenza rispetto al passato. Il primo problema, infatti, non sono i fondi, peraltro utili, ma gli ostacoli pratici. E nel Pnrr non vedo esplicitato come effettivamente si vogliano cambiare le politiche attive del lavoro. Con un diverso ruolo dell’Anpal? Con quali incentivi/disincentivi sui fondi per le Regioni? Con quale partnership pubblico-privato? Con quale coinvolgimento dei fondi interprofessionali?

L’introduzione del salario minimo legale è stata espunta dal Pnrr. Un errore?

Le parti sociali, evidentemente, sono ancora molto forti, se sono riuscite a far togliere il tema dal tavolo senza aver dovuto prendere impegni in cambio. Il problema è che c’è un numero alto di persone pagate meno dei minimi contrattuali. Sindacati e datori di lavoro sostengono che debba essere ampliata la contrattazione, riconoscendo chi è titolato a negoziare e dando valore di legge ai contratti stipulati. Ma ci sono due problemi di fondo: il primo è che in molti settori non ci sono soggetti rappresentativi dei lavoratori, vedi il caso dei rider. Inoltre, garantire valore di legge a un contratto tra privati non è cosa da poco e rischia di dare una falsa copertura uniforme a situazioni molto diverse. Infine, di riforme della rappresentanza e dei contratti si parla da decenni ma nulla è stato fatto anzitutto per l’incapacità delle parti sociali di mettersi d’accordo. Il salario minimo legale è invece una risposta semplice e non compromette la contrattazione. Tanto è vero che in molti Paesi europei – come Germania, Belgio, Francia, Spagna, Portogallo – coesistono salario minimo e contrattazione.

Le previsioni sulla scomparsa di molti lavori vittime dell’automazione sono ancora valide o il processo si è rallentato?

Per nulla rallentato: la pandemia ha semmai aumentato la spinta verso la digitalizzazione, verso cui tende pure il piano Next generation Eu. Cresce anche il contributo che l’intelligenza artificiale fornirà alle attività economiche con effetti tangibili sul lavoro. La sfida però non è tanto sulla quantità di posti di lavoro ma sulla qualità, sulla polarizzazione sempre più spinta tra professioni e mansioni non qualificate.

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