venerdì 10 maggio 2019
Alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, esperti a confronto a due anni dalla riforma, ancora largamente incompiuta. Luca Gori: «È necessaria più chiarezza del quadro complessivo»
Luca Gori

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«Il Terzo settore italiano è un modello da esportare più che un problema da risolvere. È uno dei pochi settori nei quali l’Italia ha da insegnare all’Europa intera, dove l’omologazione sarebbe una perdita di un patrimonio costituzionale inestimabile». Di fronte ai continui attacchi alla solidarietà e al volontariato, il Terzo settore deve puntare sulla propria «originalità» e capacità di innovazione, per il costituzionalista Luca Gori, coordinatore dell’Area di ricerca Tessere della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, che si occupa della disciplina giuridica del non profit e dell’attuazione del principio di sussidiarietà.

A conclusione della seconda edizione del corso di formazione, con oltre cento allievi e trenta docenti, promosso dalla Scuola Sant’Anna e dal Centro servizi volontariato della Toscana, con la partecipazione della fondazione Profit Non Profit di Milano, si è svolto, ieri sera, un incontro per fare il punto sulla riforma del Terzo settore a due anni dall’entrata in vigore della legge delega 106/2016. Un riforma, come è stato evidenziato durante l’incontro, che è rimasta incompiuta, mancando all’appello ancora numerosi decreti attuativi. Dei 41 atti previsti dalla riforma, infatti, ne sono stati finora adottati nove, mentre altri sette sono in fase di elaborazione.

«Il “chiarimento” del quadro complessivo della riforma – ha sottolineato Gori, aprendo i lavori del convegno – oggi potrebbe aiutare a dissipare dubbi, diffidenze e tentativi di fughe; offrirebbe un parametro di giudizio e di riferimento; consentirebbe di avviare una riflessione più distesa, innescare cambiamenti necessari. È innegabile che si stia giocando, per molti aspetti, “a carte coperte”». Alla necessaria chiarezza su un comparto che, come ha ricordato la portavoce del Forum nazionale del Terzo Settore, Claudia Fiaschi, ha un importante ruolo di «cassa di compensazione occupazionale » e, più in generale, di «ammortizzatore sociale», deve contribuire, dunque, anche la politica, richiamata ad assumersi le proprie responsabilità. E, invece, a un riconoscimento giuridico e istituzionale, avvenuto con la riforma, ha fatto da contrappunto una «latente diffidenza » e un crescente «scetticismo» da parte della pubblica amministrazione.

«Non c’è un paradosso – ha ribadito Gori – poiché si percepisce, specialmente dopo l’acme della crisi, che il Terzo settore è un soggetto politicamente rilevante nelle comunità, che rivitalizza la democrazia, che persegue logiche assai diverse dal mercato e relazioni inedite con il settore pubblico, che ha radici antiche ed una singolare capacità di proiettarsi nel futuro. Ecco che, allora, c’è un tentativo di “normalizzazione”, di “riassunzione” delle iniziative del Terzo settore entro schemi più consueti ». Una deriva che fa male non soltanto ai poveri, che nel Terzo settore trovano un punto di riferimento, ma anche alla stessa amministrazione statale, che, ha concluso Gori, «ha bisogno del rapporto vitale con il Terzo settore, come attore che determina “innovazione”, miglioramento dell’efficacia, produzione di valore aggiunto. Tutto non può essere ridotto ad una visione di “minor costo” a carico della finanza pubblica».

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