Il ponte spezzato? È una metafora della nostra società
sabato 18 agosto 2018

Quando c’è un incidente, un incendio, una voragine sulla strada, un’inondazione che spazza via un quartiere, qui a Niamey la gente dice «insh’Allah» . Era la volontà di Dio che tutto sa, può e governa. Una visione monista e fatalista che contiene la parte di verità che le si vuole affidare. Altrove nel mondo invece si creano commissioni, si fanno inchieste e si arriva infine a un rapporto che evidenzia le responsabilità dell’accaduto. Legittimo e forse anche doveroso passo, soprattutto per ridurre le possibilità che quanto accaduto torni ad accadere, almeno nella stessa forma.

A suo modo ognuno ha una parte di ragione: nella realtà c’è una parte che si può spiegare e un’altra parte invece da interpretare. Il dolore delle famiglie che hanno perduto in modo brutale i loro cari e le ferite di un’intera città possono e devono accomunare le letture dell’accaduto. C’è però la difficoltà ad accettare la morte che arriva sotto questa forma. Ogni morte, lo crediamo, è particolare. Le circostanze e il contesto ne definiscono il mistero e l’unicità. I fatti non parlano da soli e hanno bisogno di interpretazione. Ed è a questo punto che, pena il fermarsi allo sdegno o alle accuse, il ponte spezzato può presentarsi come una metafora della nostra società.

Le prime reazioni 'ufficiali' all’avvenimento lo confermano. Si cercano altrove le cause senza tentare di leggere i 'segni dei tempi' che la vicenda di questo ponte spezzato può offrire. Siamo un Paese che ha spezzato i ponti all’interno e all’esterno di sé. All’interno, anzitutto, contribuendo a dividere una comunità nazionale nella quale tanti, troppi non sanno più bene che cosa o chi ci tenga assieme. La divisione è confermata tra l’altro con le parole, vere sciabolate nel vuoto dell’anima, o le squallide speculazioni di parte. E poi con le scelte economiche e politiche che confermano l’accettazione di una società che viaggia a diverse velocità e intensità. Divisioni interne, che quelle esterne rendono più evidenti.

Lo smarrimento della memoria, profondamente innato al capitalismo e poeticamente profetizzato, tra gli altri, da Pier Paolo Pasolini, è da tempo una realtà. L’oblio dal dove si viene preclude il senso della destinazione del viaggio. Si è censurata l’esperienza del mondo contadino, operaio e soprattutto l’epopea delle migrazioni. Esterne anzitutto, coi milioni di connazionali partiti per un qualche altrove a cercar fortuna, e poi delle migrazioni interne, dal Sud al Nord della Penisola, dalla campagna alla città. Abbiamo tagliato i ponti col Mediterraneo. Mare nostro, mare-muro, mare chiuso, mare armato e infine mare tradito. Con respingimenti, divieti di sbarco, operazioni di dissuasione tramite la Guardia costiera libica e con campi di detenzione/concentramento migranti gestiti e finanziati in conto terzi, il ponte si è spezzato.

Ed è quanto è accaduto a Genova, col ponte Morandi. I duecento metri di vuoto sono i metri di separazione tra i popoli, tra la Costituzione del Paese e la realtà vissuta, tra il tradimento delle esperienze di solidarietà e la chiusura ermetica allo straniero. Il ponte tagliato sul torrente Polcevera è una metafora delle nostre separazioni. Non saranno le mere soluzioni tecniche a rimetterlo in piedi e neppure la ricerca delle responsabilità penali. Il ponte da ricostruire è quello delle coscienze e dei legami da ristabilire con la nostra storia e con l’altro.

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