giovedì 24 ottobre 2019
Nel mondo si assiste a una gigantesca migrazione dalle campagne alla città. Nelle metropoli le zone centrali diventano "parchi" per single e i nuclei con figli sono spinti nelle aree suburbane
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Quando ci si chiede come cambierà la forma della famiglia e la sua presenza nella società negli anni a venire, una delle variabili che andrebbe osservata con attenzione riguarda l’evoluzione delle città: il modo in cui le città cambiano, si sviluppano, vengono pensate, abitate, vissute, produce infatti una serie di conseguenze che riescono a modificare in modo molto netto la vita delle famiglie e la loro composizione. Per rendersi conto di questa trasformazione il dato da cui partire è lo straordinario successo che le città stanno conoscendo rispetto alle campagne e alle aree rurali. Ovunque nel mondo le persone vogliono vivere e vivranno sempre di più nelle città. Il 2007 è considerato l’anno del sorpasso: per la prima volta nella storia del genere umano più della metà degli abitanti del mondo è risultata vivere in un’area urbana. Oggi la percentuale è salita al 55% e nel 2050 si prevede raggiunga il 70%. Per rendersi conto della dimensione di questo cambiamento si pensi che le persone che vivranno in una città tra trent’anni saranno esattamente quante ce n’erano in tutto il mondo nel 2002. La più grande migrazione di questa epoca non avviene tanto tra nazioni, ma tra campagne e città.

La rivoluzione è in atto da tempo, ed è in gran parte figlia del progresso tecnologico. Oggi si stima che il 50% dell’intera economia americana sia prodotto nelle 25 metropoli più densamente abitate. Questa concentrazione di opportunità nelle aree urbane ha una forza di attrazione potentissima. Ma non è senza conseguenze. Da un punto di vista ambientale il cambiamento comporta che sempre di più saranno le città i luoghi da tenere sotto osservazione per l’impatto sull’inquinamento e gli effetti sul riscaldamento climatico, considerato che più del 70% delle emissioni di CO2 proviene dalle aree urbane. Ma una conseguenza significativa riguarda la dimensione delle famiglie e le prospettive demografiche del mondo. Le previsioni circa l’aumento della popolazione sulla Terra sono appena state riscritte: la popolazione mondiale non crescerà dai 7,7 attuali fino ai 12-13 miliardi che l’Onu si aspettava solo qualche anno fa per il 2100. L’Onu stessa ha rivisto al ribasso le stime (e non è escluso debba farlo ancora in futuro) correggendo la cifra a 11 miliardi. Ma secondo molti ricercatori e studiosi di demografia, nel 2100 ci si potrebbe assestare a "soli" 7-8 miliardi.

Perché queste revisioni? In gran parte per l’accelerazione del processo di migrazione nelle città. In una società avanzata l’età della prima maternità tende sempre a salire, per i percorsi di studio più lunghi e per la maggiore partecipazione delle donne nel mercato del lavoro. Inoltre il costo del mantenimento dei figli in un contesto urbano è molto più elevato. Mentre fattori come lo stress, gli stili di vita, l’inquinamento, contribuiscono a ridurre la fertilità. È in buona parte per questo che i tassi di fecondità stanno crollando ovunque nei Paesi in via di sviluppo, dall’India alla Nigeria. Lo stesso fenomeno riguarda il mondo sviluppato, anche se le dinamiche sono diverse. Il prezzo crescente degli immobili nelle città più ambite o la dimensione degli appartamenti rendono le aree centrali sempre meno adatte alle famiglie, soprattutto se numerose. Una recente analisi pubblicata su "The Atlantic", a cura di Derek Thompson, ha posto la questione in modo netto chiedendosi: «Il futuro delle città sarà senza figli?».

L’analisi partiva dalla constatazione che New York, la città più attrattiva del mondo, ha visto per la prima volta dopo tanti anni diminuire la sua popolazione: questo è avvenuto principalmente perché le famiglie tendono a trasferirsi nelle periferie, dove le case costano meno e gli spazi sono a misura di passeggino. Dal 2011 il numero di bambini nati nei cinque quartieri di New York è sceso del 9%, a Manhattan il calo è stato del 15%. Quanto sta avvenendo nella capitale globale non è un fenomeno isolato, ma interessa gran parte del mondo sviluppato, dove si verificano due grandi fenomeni "migratori": da una parte anche qui le persone si trasferiscono sempre di più nelle grandi metropoli, causando il declino dei centri meno attrattivi, dall’altra l’aumento della popolazione nelle città riguarda soprattutto le zone periferiche.

Uno studio del Cresme sull’Italia, con le previsioni demografiche al 2036, ha messo bene in evidenza il fenomeno di polarizzazione verso i centri dinamici di maggior successo: se dal 2006 al 2013 la popolazione è aumentata solo nelle città maggiori, dal 2014 la crescita ha riguardato meno di 10 centri, mentre si prevede che tra 15 anni non solo le aree rurali tenderanno a svuotarsi, ma tutte le città perderanno popolazione, ad esclusione di Milano, Bologna e Firenze, con grande sofferenza per tutto il Sud. Accanto a questo fenomeno, ecco la trasformazione dell’idea di "centro" e di "periferia". A Parigi molte scuole nei quartieri centrali hanno chiuso per mancanza di bambini. A Milano la popolazione è in crescita, ma più della metà è rappresentata da single, e il 75% dei nuclei è composto da una sola persona o da una coppia senza figli. Un po’ ovunque nei centri delle città più ricche l’unico gruppo sociale in aumento risulta essere quello dei giovani con alta istruzione e alto reddito. Terry Nichols Clark, sociologo dell’Università di Chicago ha definito le zone centrali delle aree metropolitane «macchine di intrattenimento», «parchi tematici» per giovani adulti che vogliono continuare a essere bambini, ma senza avere bambini attorno. Richard Florida, l’inventore della definizione di «classe creativa» riferita ai talenti contesi dalle «città superstar», oggi definisce i nuovi centri urbani come «aree gioco» per élites realizzate a spese dei residenti delle periferie. Mentre è proprio qui, nelle zone periferiche, come sostiene l'urbanista americano Joel Kotkin, che la minore densità si traduce in un ambiente più favorevole per le famiglie e i bambini.

Ciò che sta avvenendo attorno alle metropoli può produrre nuove opportunità, ma anche nuove tensioni. Da una parte la prospettiva è quella di veder nascere delle vere e proprie città Stato, con il rischio che abbiano però il vuoto attorno. Dall’altro la "rinascita urbana" oggi rischia sempre più di essere senza figli nelle zone centrali, ma con difficoltà per le famiglie nelle periferie, in assenza di un’attenzione particolare. Se si guarda al fenomeno francese dei Gilet Gialli, non a caso emerso in un Paese che sperimenta una polarizzazione molto netta a favore della grande metropoli, si può trovare una costante nel senso di abbandono vissuto da una parte di popolazione che sente di subire scelte decise nel cuore città e "a misura" della città e delle élites. Il pericolo oggi è che tensioni di questo tipo si verifichino anche nella dialettica tra i centri e le periferie. La politica per le città è sempre stata concepita in termini di investimenti a favore del centro, oggi è necessario un maggiore equilibrio.

La prospettiva di città in cui i trolley di chi viaggia (sfruttando e alimentando il fenomeno degli affitti brevi) si sostituiscono ai passeggini, mentre i wine bar e le trattorie tipiche prendono il posto delle scuole e degli asili, può essere una trasformazione dinamica, ma ha molte implicazioni. Se le famiglie sono sempre di più il "popolo" delle periferie, è necessario puntare su questi luoghi per favorire l’innovazione sociale, ma anche per recuperare il terreno perso investendo dove la qualità degli edifici è più bassa, dove mancano o si riducono i servizi di base, dove i trasporti pubblici rendono difficili i collegamenti e dove la carenza di infrastrutture genera emarginazione e disagio. Molti osservatori concordano nel dire che la sfida globale per un mondo più sostenibile sarà vinta o persa nelle città. Ma questo significa che la partita, anche per quanto riguarda il tema del sostegno alla natalità e della tenuta demografica di un Paese, si giocherà soprattutto nelle periferie.

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