mercoledì 12 agosto 2020
Isolina ha 92 an e nella Rsa può vedere i parenti solo per 15 minuti. Marisa ha chiesto ai giovani della parrocchia di passare da lei per un saluto. I volontari: la vera sfida ora è la prossimità
Coronavirus e quella paura degli anziani nelle Rsa
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Dai primi di luglio è partito il viaggio di “Avvenire” nella «pandemia sociale»: l’inchiesta che racconta l’emergenza economica causata dal coronavirus. Città per città, territorio per territorio, il nostro impegno porterà ai lettori la fotografia di un’Italia piegata dal Covid-19. Famiglie in difficoltà, imprese a rischio usura, vecchi e nuovi poveri aggrappati alla solidarietà dello Stato e delle molte associazioni cattoliche in prima linea.

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Non solo la salute e, troppo spesso, la vita: il prezzo salatissimo che gli anziani hanno pagato in questa pandemia è anche la rinuncia a un bacio, a una carezza, e persino al sorriso della persona cara, celato dalla necessaria mascherina, che è pure un limite per la voce. Isolina, 92 anni, invalida, è ricoverata nella Casa di riposo di un piccolo borgo della provincia di Macerata. Non ha più nessuno se non il figlio che vive a Milano con la famiglia. Passano sei mesi quando può finalmente rivederlo, a quarantena finita e 'confini' riaperti. Ma previa appuntamento e solo per un quarto d’ora. Può incontrarlo seduto su una sedia dietro a una transenna, a un metro di distanza e nel cortile, perché l’edificio è ancora 'vietato' ai visitatori, per ragioni di sicurezza. Il distacco fisico qui vale più che altrove. E finora è servito a tutti, ospiti e personale. La mamma arriva su una carrozzina spinta dall’infermiera che la lascia dentro il cerchio dipinto per terra e se ne va. Il tempo stringe e il colloquio è essenziale. «Mamma, come stai? Mangi? Come vanno le tue gambe, i terapisti ti fanno camminare? E ti diverti ancora con il karaoke?». «Sì, tutto bene, figlio mio... e tu, come te la passi?». Si parla (ad alta voce) e ci si guarda negli occhi come se fosse l’ultima volta. E, alla fine, l’inevitabile domanda: «Vieni qui, avvicinati, perché non mi abbracci? ». «Mamma, non posso, c’è il coronavirus... è per il tuo bene». Lei ci rimane male e cerca di rimediare facendo ciao con la mano, mentre due lacrime scorrono veloci sulle sue guance. Ma faglielo capire, a quell’età, che la carezza è temporaneamente 'proibita'. Solitudine, paura, se non angoscia del vivere, sono le altre ferite lasciate nell’animo degli anziani dall’esperienza del lockdown.


Nelle case di cura si parla e ci si guarda negli occhi come se fosse l’ultima volta. «Mamma, come stai? Mangi? Come vanno le tue gambe?». «Sì, tutto bene, figlio mio... e tu? Vieni qui, perché non mi abbracci?»

Ma per molti di loro la speranza si è accesa attraverso un incontro, un brandello di umanità. Mariuccia, torinese, 85 anni, non nascondeva fatica e sconforto. «Sono diventata vecchia!» diceva. Eppure, a guardarla, non dimostra affatto le sue primavere. «Prendo una pensione di 500 euro e il mio cruccio più grande – racconta – è stato di non riuscire più ad aiutare economicamente i miei figli e i loro ragazzi: sono povera, non posso. Mi resta solo la possibilità di sostenerli accudendo i nipoti, però mi rendo conto di essere diventata un peso». E per quale ragione? «Mia nuora mi dice sempre, 'per il mio bene', cosa devo o non devo fare. Loro sono preoccupati per il lavoro precario e i soldi che non bastano: io, invece, devo sentirmi fortunata perché l’assegno alla fine del mese mi arriva sempre. E se telefono, non devo sciupare tempo e denaro, se invece mi siedo in cucina devo reagire per non deprimermi. Ma io sono stanca, preferisco stare da sola». Mariuccia, prima della crisi sanitaria, è sempre andata a ritirare personalmente il pacco viveri in parrocchia, per lei e il figlio. «Non mi è mai piaciuto farlo perché – spiega – mi sono sempre sentita incapace di provvedere con i miei mezzi, ma almeno decidevo io di andare. Durante la quarantena invece sono venuti a portarmelo a casa i volontari... e mi sono sentita ancora più inutile ». Andavano tutti i giorni da Mariuccia quelli della Caritas, quando non si poteva uscire e le cucinavano pure il pranzo. Poi non è stato più necessario. Finché, qualche gior- no fa, la donna non si è rivolta al Centro d’ascolto per sapere dove fossero finiti «quei giovani e simpatici amici». «E perché?» le ha chiesto l’operatore.


Mariuccia, prima della crisi sanitaria, è sempre andata a ritirare personalmente il pacco viveri in parrocchia. «Durante la quarantena invece sono venuti a portarmelo a casa i volontari. Mi mancano tanto, vorrei rivederli»

«Mi mancano tanto, vorrei rivederli» ha risposto lei. «Ecco, questa è la nostra grande scommessa – commenta Pierluigi Dovis, delegato Caritas del Piemonte –, tenere il collegamento, continuare la prossimità». È il senso della missione. «Nella fase critica dell’epidemia, per evitare i rischi del contagio, a due storiche volontarie di una parrocchia del Cuneese i figli hanno proibito di recarsi a fare il solito servizio a casa di over 65 – racconta – e così il loro telefonino si è trasformato, come per incanto, in un vero e proprio Centro d’ascolto». La videochiamata è diventata lo strumento indispensabile per riannodare le relazioni spezzate dal distanziamento sociale. «Fino a far decidere una nonna, riluttante verso la tecnologia, a utilizzare Skype per festeggiare i suoi 90 anni con la figlia, il nipote e le volontarie che non poteva avere vicino ». E quando lo ha fatto le brillavano gli occhi. «Perché ai nostri anziani, come ai nostri giovani, in questo momento servono certezze – commenta Dovis –, fatti concreti e non parole che illudono». Marisa, 75 anni, vive da sola nella sua casa di Rimini. È stata per una vita la segretaria di un prestigioso liceo cittadino. Per il giorno di Pasqua ha chiesto la compagnia dei 'ragazzi' della Caritas. «Ma la busta con il pranzo era proprio una 'scusa' per scambiare due chiacchiere – ricorda la volontaria Paola Galasso – e ogni volta che entravo in macchina dopo averla salutata ero sempre umanamente arricchita da una sua 'perla di saggezza'. Un giorno mi ha detto che tutto quello che facciamo per il prossimo è come un salvadanaio che useremo quando saliremo alla casa del Padre». Usciti dall’abitazione di Marisa, i volontari si recavano da Pierina, un’ottantenne immobi-lizzata a letto da una grave malattia. Qualcuno, forse il vicino, l’assisteva durante la giornata e lasciava la porta d’ingresso socchiusa. I volontari così potevano entrare. «La trovavamo sempre con un crocifisso o il rosario tra le mani – dice Galasso – mentre guardava la Messa in tv. Sola, completamente, ma sempre col sorriso sulle labbra e una parola buona per noi». Ma la povertà 'morde', soprattutto al Sud. I pensionati che percepiscono gli assegni più bassi, risucchiati dalla crisi economica, lottano per la sopravvivenza, spesso sull’orlo della disperazione. Si tolgono l’assegno per mantenere i figli che hanno perso il lavoro e vanno al mercato a cercare gli scarti di frutta e verdura lasciati nelle cassette.

Volontari in campo nei supermercati per aiutare le persone in difficoltà

Volontari in campo nei supermercati per aiutare le persone in difficoltà - Fotogramma

«Fin dall’inizio dell’epidemia e ancora di più oggi, nel territorio metropolitano di Napoli la prima necessità è quella alimentare – afferma Ciro Grassini, coordinatore dei servizi Caritas –, una esigenza che ora è persino aumentata. All’inizio e durante il lockdown abbiamo potuto contare su una fitta rete di donazioni, di cibo e denaro e abbiamo anche faticato a smaltire le scorte. Ma con la ripartenza i nostri donatori sono quasi tutti scomparsi. Perché anche loro si sono impoveriti. Altri invece hanno paura della crisi e cercano di risparmiare. Le risorse sono minori, insomma, e le persone in necessità di più. E si tratta soprattutto di anziani». «Con l’isolamento sociale si sono interrotti molti rapporti e quindi anche le interazioni che creavano piccole forme di economia circolare – spiega lo psicogeriatra Marco Trabucchi – utili per valorizzare le pensioni. Alcuni prezzi dei cibi sono aumentati ma non in maniera rilevante. Ma il danno più grave è la perdita di speranza».

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