martedì 13 febbraio 2018
Reportage a un mese dalla denuncia di Avvenire. Ancora nessuna risposta alla domanda di asilo. Il vescovo Loppa: «Esistono ma sono invisibili»
Arcinazzo, migranti al lavoro nella cucina della canonica

Arcinazzo, migranti al lavoro nella cucina della canonica

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Sorridono Obi, Antony, Daniel e Cristian, attorno al tavolo da pranzo assieme a don Onofrio Cannato. Quattro ragazzi nigeriani e il parroco. Si fanno il segno della croce – i giovani sono tutti cattolici – e arrivano i piatti fumanti cucinati da Katia e Roberta, volontarie della parrocchia Beata Maria Vergine Refugium Peccatorum agli Altipiani di Arcinazzo.

Siamo saliti qui a 900 metri, tra montagne innevate e fitti boschi, tra le province di Roma e Frosinone, per raccontare la vicenda dei cento richiedenti asilo ospitati nel Cas gestito dalla cooperativa 'Tre Fontane' di Roma, della loro protesta per le condizioni di vita, della 'punizione' per 5 di loro, finiti per strada, delle porte aperte di don Onofrio e della comunità parrocchiale. Ne abbiamo scritto quasi un mese fa, ora siamo venuti a incontrarli. Una storia di bella e intelligente accoglienza, ma anche di colpevoli ritardi e gravi carenze, dove ancora una volta è la Chiesa a sostituirsi alle istituzioni pubbliche. Malgrado la protesta dei migranti all’inizio di gennaio, malgrado la denuncia di Avvenire, «ancora nessuno è stato convocato al primo colloquio per la domanda di asilo – ci dice amaramente don Onofrio –. Eppure sono qui da 8 mesi». La legge parla chiaro: l’esame della domanda tramite convocazione del richiedente dovrebbe avvenire entro 30 giorni dalla richiesta e la decisione dovrebbe essere presa nei tre mesi successivi. Invece non si è mosso nulla. «Si sta creando un esercito di sommersi e noi come cristiani non possiamo stare zitti», accusa il sacerdote. E ricorda come gli ospiti di un precedente Cas, sempre agli Altipiani, «sono finiti tutti per strada».

È quello che era successo ai 4 ragazzi nigeriani dopo la protesta: revoca dell’accoglienza nel Cas, pur mantenendo lo status di richiedente asilo. Destino? La strada, se non ci fosse stata la parrocchia. E stava per toccare anche ad altri 40 che avevano partecipato alla manifestazione pacifica di protesta. A quanto ci risulta, dopo il nostro articolo, si è mosso il ministero dell’Interno, chiedendo informazioni ai carabinieri di Trevi nel Lazio, comune dal quali dipende la piccola frazione (200 abitanti). «Mi ha chiamato il sindaco per dirmi che la revoca per i 40 era stata bloccata – ci dice don Onofrio –. Ma non ai quattro». Che evidentemente devono 'pagare' per tutti.

Ma perché avevano protestato? Obi, Antony, Daniel e Cristian lo spiegano mentre pranziamo assieme. «Da quando siamo arrivati a maggio non abbiamo ancora avuto nessun documento, nemmeno quando andiamo all’ospedale a Roma». «Il riscaldamento del centro è sempre spento e quando ci lamentiamo ci dicono che se non vogliamo restare ce ne possiamo andare». «Abbiamo un bagno ogni 12 persone». «Il cibo che mangiamo è cucinato a Roma e quando arriva qui è rovinato». Infatti i pasti arrivano dal centro cottura di Pomezia, utilizzato dalla cooperativa Tre Fontane per i suoi centri: un viaggio di 100 chilometri, quasi due ore, su strade di montagna, neve permettendo.

Altro che la tavola in parrocchia, dove l’accoglienza non si ferma a vitto e alloggio. «La cosa positiva – sottolinea don Onofrio – è che la gente si è stretta attorno a loro». E anche il sindaco di Trevi collabora. Niente tensione, anche dopo la protesta. E i ragazzi lo confermano. «Non abbiamo avuto nessun problema di razzismo, con gli italiani è sempre andato tutto bene».

Non senti parole ostili. Anche se le loro storie sono dure. Hanno tra 20 e 28 anni, vengono tutti dal Biafra, nel sudest della Nigeria. Fuggiti «per motivi etnici». Sono stati in Libia tra 8 mesi e due anni. Poi il viaggio in mare per 3-4 giorni e lo sbarco in Calabria, Sicilia o Puglia. Quindi la destinazione sull’Appennino laziale. Con loro altri migranti di Ghana, Niger, Mali, Ciad, Egitto, Marocco, Pakistan, Bangladesh.

«Sono arrivati con le infradito e i pantaloncini – ricorda don Onofrio – e tra i cittadini c’è stata una gara di solidarietà per vestirli». Prima sono finiti in un albergo fallito, poi in due villette, 60 in una e 40 nell’altra. Praticamente a non fare nulla, sempre in attesa di essere convocati dalla commissione che deve esaminare la loro domanda d’asilo. Che, oltretutto, non è a Frosinone ma a Latina. Da qui la protesta e la revoca.

«Esistono ma sono invisibili. Non hanno commesso cosa così grave da essere rimandati in patria, ma gli è stata tolta la possibilità di stare in un centro. E dove devono stare, in mezzo a una strada? Dobbiamo decidere: o li accogliamo, o non li accogliamo. Questo ha fatto la parrocchia», dice il vescovo di Anagni-Alatri, monsignor Lorenzo Loppa, che ha incontrato i ragazzi.

Ed è ben diverso è quello che hanno trovato in parrocchia, anche prima della protesta. «Abbiamo messo in piedi attività di integrazione – spiega don Onofrio –, hanno partecipato alla festa per le prime comunioni e organizzato delle loro feste cucinando. E ho fatto anche venire un sacerdote nigeriano. Tutto a spese nostre». Ora sono partiti due progetti: uno riguarda la manutenzione dei 'Sentieri dello Spirito' nel comune di Piglio; l’altro, che coinvolge imprenditori locali, permetterà di fare apprendistato nei settori di falegnameria, edilizia e cucina.

Un bell’impegno per la parrocchia, che però si dà da fare con intelligenza per raccogliere fondi. Sul sagrato c’è un grande bidone per la raccolta degli oli vegetali esausti: «Le famiglie ci portano il loro olio, lo scorso anno 1.800 litri, che così non finisce nelle fogne. Noi, grazie a una convenzione, lo consegniamo a una ditta che lo ricicla e in cambio fornisce il cibo alla Caritas interparrocchiale».

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